Ritratto Familiare

Un ritratto familiare

contributo di Maria Moscardelli al volume

“Ignazio Silone”, Camera dei Deputati, Archivio Storico, Roma 2012

Il ritorno

Un giorno di inizio primavera del 1945 a Roma una famigliola di quattro persone uscì di casa per recarsi ad un appuntamento. Dal quartiere San Giovanni arrivò nel centro di Roma di fronte alla chiesa di San Carlo al Corso ed entrò nella hall dell’albergo Plaza dove, tra vetrate e legni scuri, una coppia sorridente li stava aspettando.

La famigliola era composta da Gina, procugina di Ignazio Silone, dal marito, e dai loro bambini, Maurizio e Maria. Gina aveva già rivisto Silone insieme agli altri parenti paterni l’anno prima a novembre a Pescina, un mese dopo il suo ritorno in patria.

Da quel giorno l’immagine che, fin da bambina, custodisco nella memoria insieme a tante altre legate a Silone, è quella di una bellissima coppia, dall’aria felice. Lui alto e bruno, gli occhi grandi e dolci, il viso colorito; lei, bionda, alta e snella, una pelle di porcellana, di una bellezza abbagliante, avvolta in un profumo raffinato. Ricordo le feste, le attenzioni e le coccole ricevute come mai da altri prima di allora. Non si usava nelle famiglie abruzzesi. A tutto questo si aggiunse una coppa di fragole con la panna sopra, anche questa rimasta indimenticabile.

Il signore tanto affettuoso e dall’aria distinta era Ignazio Silone. Aveva quarantaquattro anni. L’affascinante giovane donna ventisettenne era la moglie Darina Laracy.

Quel giorno avevo visto l’uomo pieno di speranze e propositi, oltre che felice per essere potuto tornare in patria dopo diciassette anni di esilio. Anche se come scrittore era sconosciuto ai più – durante il fascismo i suoi libri in patria erano stati proibiti – sperava di portare il partito socialista in Italia su una linea autonomista. Per questo, oltre che per il suo attaccamento al proprio paese, aveva rifiutato di trasferirsi negli Stati Uniti. Già nell’estate del 1941 lo scrittore aveva lasciato il posto al politico accettando di guidare il Centro Estero del partito socialista in esilio.

Silone non sapeva ancora che in Italia lo aspettava una delusione e, di fatto, un secondo esilio.

La sua vita quotidiana a Roma

Avrei rivisto Silone più volte in seguito con mia madre e i miei fratelli e poi con mio marito, ma anche da sola, sia a Roma che a Pescina dove tornava spesso. Lo avrei rivisto anche con Darina e di Darina avrei raccolto le confidenze intime fino al giorno della sua morte nel luglio 2003.

Chi andava a trovare Silone al n. 36 di Via di Villa Ricotti, in una palazzina di proprietà di un ente pubblico, trovava un appartamento sobrio sempre in ordine e assai pulito. La fedele signora sarda dai capelli nerissimi raccolti in alto a pagoda, Maria detta la Fenicia, ci lavorava poche ore al giorno. Nello studio numerose cartelle e faldoni contenevano migliaia di carte, lettere e documenti in ordine perfetto e ben catalogati. Tra le numerosissime lettere Silone ne conservava ventiquattro di don Orione ricevute fino al 1940 e molte di Aline Valangin. Di quella casa in affitto e tutt’altro che lussuosa più di una volta ci disse: “A Via di Villa Ricotti c’è tutto quello di cui ho bisogno, compreso il giornalaio e l’ufficio postale di Piazza Bologna a due passi”. Silone indossava sempre abiti di ottima fattura completi di gilet.

Una volta Darina mi confidò che, quando lo aveva conosciuto, Silone incarnava il suo ideale d’uomo latino fin da ragazza. Nel dicembre del 1941, quando a Zurigo aveva fatto di tutto per incontrarlo, Silone era già noto in tutto il mondo fin dal 1933 come l’esule antifascista che aveva scritto Fontamara (‘33), seguito da Pane e vino (‘36) e da La scuola dei dittatori (‘38), tutti pubblicati in tedesco. Quello stesso mese usciva, anch’esso in lingua tedesca, Il seme sotto la neve. In Svizzera Silone era considerato un uomo affascinante. A parte l’impegno culturale e la notorietà internazionale, tutte le donne degli ambienti che frequentava erano un po’ innamorate di quel bell’uomo bruno dallo sguardo malinconico, dotato di riserbo e di una naturale distinzione.

Le tre donne della sua vita

Ogni tanto a casa di Silone si svolgevano piccoli ‘parties’ con intellettuali italiani ma soprattutto stranieri. Avrei scoperto in seguito che Silone era stato l’intellettuale italiano più ammirato all’estero, dalla Francia all’America, dall’Inghilterra all’India, dall’Australia ad alcuni paesi africani. A volte ero invitata, specialmente quando c’erano persone di lingua inglese. Silone parlava e scriveva francese, spagnolo e tedesco, ma l’inglese non lo aveva mai attirato. Inoltre c’era Darina per questo. Ricordo che in quelle occasioni mia madre diceva: “La moglie di un ambasciatore, era quello che doveva fare”. A quei tempi lei si confidava lungamente con mia madre.

Ebbene una sera in cui mi ero congratulata con Darina per l’organizzazione della serata, lei, con un sorrisetto malizioso, disse: “Certo Aline sarebbe stata  all’altezza, l’altra invece no”.

Darina era gelosissima di Silone e di tutto ciò che lo riguardava e lo sarebbe rimasta anche dopo la sua morte. Silone era cosa sua, comprese le sue carte che avrebbero meritato subito un’ampia valorizzazione se affidate ad un’istituto universitario come Silone aveva sempre voluto. Con lei non bisognava mai fare il nome di una persona. Gabriella Seidenfeld. A casa nostra se in sua assenza si accennava a Gabriella ci si riferiva alla “prima moglie di Silone”.

Silone aveva conosciuto la sua prima compagna, Gabriella, nel novembre del 1921 a Fiume al convegno dei giovani comunisti.

Gabriella è un’ebrea di origine ungherese, piccola di statura, molto graziosa, una nuvola di capelli rossi, rotondetta, dotata di umorismo. Nel pieno del fervore rivoluzionario del primo dopoguerra, quando il partito socialista di Fiume era diventato una sezione della Terza Internazionale, con le due sorelle, Barbara e Serena, aveva aderito al partito comunista. Gabriella conosce il francese, l’italiano e il tedesco. Silone, membro del Comitato esecutivo dell’internazionale giovanile comunista, cerca qualcuno per i contatti con Berlino. Lei accetta entusiasta. Si era fidata istintivamente di quel bel giovane abruzzese, dagli occhi tristi e l’aria intelligente. Da quel giorno non si lasciarono più.

La tenerezza di una donna con cui condivide la stessa passione politica scioglie la rigidità della sua vita solitaria fin dai quindici anni. Con Gabriella ha trovato qualcuno che gli sta accanto e si prende cura di lui. Lei è più grande di quattro anni ma lui ne dimostra di più. Silone a ventun’anni ha già un pesante bagaglio di tragiche esperienze. Fino all’incontro con Gabriella era come anestetizzato. Aveva bruciato le emozioni. Tuttavia qualcosa dentro di lui è rimasto acceso. La carica di affetto e di sicurezza ricevuti nell’infanzia e nella fanciullezza dalla madre e dal padre riscattavano la malinconia dell’adolescenza e il gelo della gioventù.

Nel rapporto del tutto nuovo con Gabriella rivede il suo passato e i suoi valori. E’ come tornare bambino, come cominciare a parlare e camminare. Di nuovo il ragazzo di prima del terremoto, quando credeva in un socialismo più passionale che razionale. Tra loro due una totale fiducia, lui ama quella piccola donna che gli parla con dolcezza e capisce i suoi pensieri. Quando nel gennaio del 1924 sarà imprigionato per la seconda volta in Spagna con l’accusa di propaganda comunista, Gabriella si esporrà fino a farsi imprigionare pur di fargli avere un fagotto di indumenti di lana.

Mentre sono esuli in Svizzera, si arrangiano a fare lavoretti anche per mandare soldi a Romolo in prigione. Da qualche tempo però in lui qualcosa sta cambiando. L’amore per Gabriella si sta affievolendo. Lei sembra non volersene rendere conto. Vestito con un pantalone troppo largo e un maglione troppo stretto, nel pomeriggio quando va a riconsegnare i lavori di dattilografia o di traduzione, se gli offrono un tè mette i biscotti in tasca per portarli a Gabriella. Mette in giro la voce che cerca alunni per dare ripetizioni di italiano e spagnolo.

E’ così che, a dieci anni di distanza dall’incontro con Gabriella, conosce Aline Valangin. E’ molto bella, ha lunghi capelli neri, occhi scuri, la carnagione chiara. E’ sposata ad un uomo importante che la trascura. Ha undici anni più di lui, ma non si nota la differenza con i trent’anni di Silone. Aline, pianista, studiosa di psicanalisi e scrittrice ha fatto della sua residenza a Comologno, ‘La Barca’, un cenacolo internazionale di intellettuali antifascisti e antinazisti.

Con questa raffinata intellettuale Silone vive una breve ma intensa relazione nel periodo in cui gli interessi artistici e culturali prendono il sopravvento. La relazione finisce dopo pochi mesi per la gelosia di Silone. Lei, nonostante altre storie dopo, di Silone scriverà: “[…] non esisteva niente e nessuno per me fuori di lui […] Non mi sono mai sentita così leggera nell’ardente presente né mai più mi sarei sentita così nel futuro”.

Resteranno in ottimi rapporti. L’ammirazione, la stima e l’affetto che continuava a nutrire per lui è testimoniato dagli scritti autobiografici della Valangin. Dopo il ritorno di Silone in Italia si scriveranno molto. Ogni tanto lei scenderà a Roma per pranzare con lui. Silone sarà ospite ad Ascona nella villa in collina dove lei viveva insieme al nuovo marito, Wladimir Vogel. Purtroppo le sue numerose lettere a Silone sono state stracciate dopo la morte di Silone. L’ultima era del 23 agosto 1978, quattro giorni prima della morte di Silone.

A Roma Silone continuava a mantenere contatti affettuosi anche con Gabriella e l’aiutava anche finanziariamente.

Quando aveva incontrato Darina, nella bionda bellezza irlandese, multilingue e cosmopolita, forse aveva creduto di trovare la combinazione delle due donne che aveva amato. La compagna politica e l’intellettuale. Dopo averla conosciuta, sulla copia della prima edizione italiana appena pubblicata in Svizzera de Il seme sotto la neve le aveva scritto “Alla compagna Darina – Unum in una fide et spe: libertas”. Con lei fu sempre molto paziente e non le fece mai mancare nulla.

Carattere di Silone

E’ facile fraintendere il carattere di un uomo come Silone, un uomo dall’intensità emotiva straordinaria.

In Italia alle feste dei parenti, ai matrimoni e persino ai battesimi, era rilassato. Con i vecchi amici e compagni politici a Pescina era sempre disponibile. Con tutti noi era capace di grande dolcezza, ma sempre con un certo pudore. Dava la sensazione di conoscere le nostre vite anche senza bisogno di parlargliene.

Quando si sentiva tra amici se ne usciva spesso con delle battute divertenti. Ma la sua ironia non era mai sarcasmo. L’ho visto scherzare con i collaboratori di Tempo Presente e conversare affabilmente con Natalia Ginzburg e il marito Gabriele Baldini, con Geno Pampaloni, Paolo Milano, Luce d’Eramo, Mary McCarthy e altri intellettuali della Partisan Review arrivati a Roma per lui dagli Stati Uniti, e molti altri. Manteneva rapporti epistolari con gli amici in Svizzera, con intellettuali di molti paesi, oltre che con numerosissime altre persone in tutto il mondo.

La cosa curiosa è che amava farsi fotografare. Eravamo noi parenti a non portarci dietro la macchina fotografica per una forma di discrezione.

Dai ricordi le sue malinconie. Quando parlava di Pescina e nelle occasioni in cui l’ho accompagnato in macchina al paese natale, c’era spesso in lui un velo di tristezza. Tuttavia, mentre raccontò a casa nostra del terremoto e di tutto il resto compreso il parente materno che voleva lasciar morire lui e il fratellino, in pubblico ne ha parlato solo in un’intervista in Francia e quando ne ha scritto nei libri tramite il suo alter ego Pietro Spina lo ha fatto in modo stringato e apparentemente neutrale. Darina mi raccontò di quando Silone non volle uscire di casa per incontrare l’italianista americano William Weaver, suo grande estimatore. C’era stato un terremoto in Africa con numerose vittime e Silone se ne restò a lungo da solo in casa. I fatti tristi della sua vita li serbava dentro la sua anima, come ‘il decoro’ dei contadini a non raccontare i propri affanni in piazza.

Diventava determinato e, se necessario, aspro e tranchant in politica, duro e sferzante negli articoli e negli interventi pubblici. Era assolutamente rigoroso sull’autonomia socialista e sulla libertà della cultura. Per Silone la controversia politica e ideologica era un evento serio e passionale non mascherabile dietro ipocrite convenzioni sociali. Nei confronti degli avversari ideologici non affettava savoir faire. Menava fendenti e diceva quello che pensava a tutti.

Alla fine degli anni ’50 partecipò ad un convegno a Roma presieduto da un importante direttore di giornale oggi ottantenne: dopo la prima serata non si fece più vedere. In Israele per ritirare un premio, invocò i diritti per i palestinesi. Altrettanto noti sono i suoi scontri pubblici con Sartre e Pablo Neruda. Il saggio Uscita di sicurezza fu pubblicato mentre i suoi ex-compagni del partito comunista erano tutti vivi. Quando don Franzoni che aveva visto inizialmente come un riformatore della Chiesa, lo deluse, smise bruscamente di andarlo a sentire: non mi chiese più di accompagnarlo.

La sua indipendenza di giudizio segno di “un’onestà indifferente alla preoccupazione del che dirà la gente” (Il seme sotto la neve).

Diventava chiuso e severo quando incontrava persone di cui non si fidava completamente. Era il comportamento di uno abituato, nella vita di militante clandestino e nell’esilio, a guardarsi le spalle.

Si è tanto parlato dei suoi silenzi. Intanto non era portato a confidarsi con i giornalisti. Poi, quando non si fidava, o temeva di essere volutamente travisato, per non manifestare avversione si chiudeva in silenzio. In definitiva preferiva stare zitto che fare discorsi di circostanza. Ne Il seme sotto la neve, pieno di dialoghi come tutti i suoi romanzi, donna Maria Vincenza ricorda l’ammonimento che dopo morti bisogna rendere conto di tutte le parole inutili dette su questa terra.

Ma come mai dopo una militanza politica totale e intransigente, al momento dell’uscita dal partito comunista ha un atteggiamento che può apparire furbesco? Silone sembra prendere tempo, appare titubante, ha atteggiamenti altalenanti. Non può essere  dovuto solo  alla situazione contingente di esule in cui si trova e in più con il fratello prigioniero dei fascisti che si dichiara comunista. Un comportamento simile lo ritroviamo in un’ altra importante occasione.

Il fatto è che quando si tratta di qualcosa in cui ha precedentemente creduto e in cui ha investito tutto se stesso e che scopre cambiata o diversa – e questo vale per le istituzioni, le organizzazioni politiche, ma anche le persone – Silone è uomo dalle ponderazioni approfondite che possono apparire incertezze. Ma non sono tali. Non torna indietro nelle sue decisioni, ma quando esse implicano un capovolgimento di 360 gradi, non lo fa mai con leggerezza. Non è uomo dalle decisioni impulsive. La stessa apparente titubanza l’aveva manifestata al momento dell’abbandono dei collegi religiosi anche quando dentro di sé aveva già fatto la sua scelta tra socialismo e cristianesimo.

E’ questo sempre l’atteggiamento di Silone quando si trova di fronte a situazioni complesse che toccano i suoi sentimenti e non solo la ragione.

Silone si trova a suo agio in una realtà in cui i contrasti sono semplici e lineari, come all’epoca in cui giovane ribelle marsicano incanalava tutto il suo essere, la veemenza e l’entusiasmo di cui era capace, nella militanza socialista. Si trova a mal partito negli apparati burocratici e con le persone smaliziate anche nelle relazioni personali.

Come Celestino, Silone  “un uomo semplice tra retori e cortigiani”.

A proposito di Celestino, in Silone non c’è una doppiezza, ma sicuramente c’è una doppia vocazione. A fra Bartolomeo che di Celestino dice: “è un cristiano che ha avuto la grazia di due vocazioni, e tutte e due di una forza eccezionale, direi quasi irresistibile: quella dell’eremita e quella del pastore”, fra Ludovico risponde: “Di avere due vocazioni è capitato anche ad altri e può essere principio di grandi dolori. E’ una grazia, voglio dire, che può diventare una disgrazia”. Così Silone tra letteratura e politica.

Per concludere ho visto Silone in mezzo alla gente. Lo sguardo attento, a volte scrutatore, ma sempre schietto. Non poteva farci niente se dal suo essere traspariva una evidente superiorità intellettuale che intimidiva. Era un uomo carismatico che incuteva soggezione.

La famiglia Tranquilli

Se ripenso all’aria sorniona con cui Silone si aggirava in mezzo a tanta gente senza quasi fermarsi nelle occasioni in cui l’ho accompagnato, devo riconoscere che ben diverso era il suo atteggiamento a casa dei parenti. Parlava con tutti e s’informava di tutti.

Ha trascorso moltissime vigilie di Natale a casa nostra a Roma, con il capitone, i fiadoni, le ferratelle e le mandorle atterrate. Servivano ad esorcizzare i Natali mancati. Quando parlava delle tradizioni familiari a Pescina, con mia madre sembrava avessero un linguaggio comune. Nel ricordo del ciocco lasciato acceso la notte di Natale per la Sacra Famiglia, c’era tutta la nostalgia dei Natali di casa sua, con la religiosità naif e medievaleggiante abruzzese della famiglia rimasta radicata dentro di lui.

Alle feste a Pescina a casa del cugino Raffaele, restava volentieri a lungo a tavola. Per uno che aveva anche sofferto la fame, Silone non disdegnava un buon pranzo.

In una di quelle occasioni, un giorno a Pescina lo vidi in strada accanto ai cugini Raffaele e Ciccuccio. Colpiva la loro somiglianza. I Tranquilli sono sempre stati i più alti e imponenti del paese, l’aria severa, i lineamenti decisi. Silone, reso più robusto dall’età, ma senza le loro spalle larghe né le mani enormi, camminava accanto a loro, la testa alta, il cappello all’indietro con la tesa alzata a scoprire tutta la fronte, a mo’ d’aureola. Nel loro incedere insolitamente dritti e impettiti traspariva un orgoglio del tutto naturale, l’orgoglio dei Tranquilli. In paese ognuno ha il suo bel soprannome. Quello dei Tranquilli è “capatosta”. “Significa”, mi spiegò mia madre, “che se dicono una cosa è quella”. Mia madre è morta a 92 anni nel 2004, un anno dopo Darina che era di quattro anni più giovane. Se non intervengono terremoti, sevizie e dittature, i Tranquilli sono assai longevi.

***

Silone è nato nel maggio del 1900 nella famiglia Tranquilli tra le montagne più alte degli Appennini. Su quella parte d’Abruzzo, circondata da massicci rocciosi e glabri come il Velino e il Sirente e segnata dalla scarsità di terre coltivabili, dalla fine dell’800 il prosciugamento del lago Fucino aveva scoperto sedicimila ettari di terra fertilissima su cui si stava concentrando il desiderio di possesso di tutti i poveri cafoni.

I Tranquilli sono da sempre una famiglia benestante e tradizionalista. Pietro, il nonno di Silone, nasce nel 1830 e possiede terre e vigne. Era stato un importante allevatore di cavalli e vacche ma nel 1876 ne aveva perso due-trecento capi a causa dell’improvvisa mancanza di erba alta e fresca nei pascoli intorno al lago in seguito ai cambiamenti climatici e alla penuria d’acqua dovuta al prosciugamento. Ha dieci figli, sei maschi e quattro femmine. Hanno tutti i loro appezzamenti di terra e il bestiame necessario. Tra i figli il più grande è Enicandro, consigliere comunale insieme ad un altro fratello; Camillo è ingegnere capo della provincia; Paolo, il padre di Silone, è il più piccolo. I cugini di Silone, compresa Giulia (mia nonna, madre di Gina), figlia di Enicandro, sono tutti di parecchi anni più grandi di lui. Tra Silone e mia madre sua procugina solo tredici anni di differenza (Silone nasce nel 1900, mia madre nel 1913).

I Tranquilli agricoltori e allevatori sono connotati dall’ancestrale dimensione rurale delle genti di montagna, facilmente turbati dai cambiamenti politici, economici ed ambientali. Pietro trasmette ai figli una certa passiva chiusura conservatrice. Fa eccezione Paolo, il padre di Silone.

Un giorno mia madre mi disse che in famiglia definivano il padre di Silone “strano” rispetto ai fratelli. Capii cosa volesse dire quando Silone nel raccontare il suo primo incontro con don Orione e quel memorabile viaggio in treno con lui a quindici anni, lo definisce “uno strano prete”. Per “strano” s’intende differente, differente da tutti gli altri.

Infatti Paolo non accetta supinamente di uniformarsi allo spirito conservatore familiare. E’ un ribelle, un anticonformista, un repubblicano. Ha la sua parte di terra e le vigne su cui però lavora insieme ai braccianti senza risparmiarsi. Scandalizza tutti con la campagna elettorale a favore di un socialista forestiero che osa sfidare un Torlonia. Silone ha allora sette anni.

Silone ci raccontò di come il padre si fosse presentato in Comune per registrarlo con il nome di Cairoli o in alternativa di Mameli. Di fronte al rifiuto dell’ufficiale di stato civile rifiutò di sceglierne un altro. “E allora dategli il nome che vi pare”, disse irritatissimo. Il segretario comunale scrisse il proprio nome.

Per dare un futuro diverso ai figli, dopo le epidemie di fillossera che gli fanno perdere buona parte delle vigne, Paolo parte per il Brasile. Ma viste le condizioni in cui si trovano gli emigranti, soprattutto gli italiani, se ne torna indietro. Riprende in mano le terre trascurate durante la sua assenza ma si ammala di polmonite e muore. Secondino ha undici anni e al seminario di antica tradizione vescovile di Pescina dove già studia entra da convittore. Il fratello più piccolo di quattro anni invece dopo la scuola torna a casa dalla mamma che riprende il lavoro di tessitrice insieme alla nonna. Prima tesseva solo per la famiglia. Dalla fine dell’800 nelle case erano andati aumentando rudimentali telai di legno che permettevano alle famiglie di lavorare per le esigenze domestiche la lana degli armenti di cui l’Abruzzo era ancora ricco.

Il terremoto e i convitti religiosi

All’alba del 13 gennaio 1915 nella Marsica una scossa violentissima causò la morte di trentamila persone. Silone si ritrovò immerso in una nebbia bianca di polvere. Corse fuori dal seminario nell’aria gelida e in un silenzio innaturale. Coperto a malapena corse a perdifiato saltando massi, porte e travi e si arrestò davanti allo spazio vuoto dove non c’era più niente. La casa dove conosceva il posto di ogni cosa era scomparsa.

Con le mani nude scavava e spostava mattoni, una gamba del tavolo, l’angolo dello stipo. Cinque giorni dopo vide il corpo della madre. Solo dopo fu estratto il fratellino bianco di calcina, la bocca piena di polvere a forza di urlare, una spalla rotta ma vivo. Romolo era un ragazzino di nove anni assai robusto.

Nelle notti sotto la tenda con i fuochi accesi tutt’intorno per tenere lontano i lupi si stringeva al fratellino per riscaldarlo. La mattina il cugino Raffaele richiamato da militare arrivava con il latte caldo e un cartoccio di pane.

Una notte Silone smise di piangere. Ora che del passato non era rimasto niente e loro due erano soli, ognuno sarebbe stato per l’altro il legame con la vita, con la madre, il vincolo del sangue.

Di fronte a quel cumulo di macerie Secondino aveva combattuto e vinto l’autocommiserazione.

Infatti dopo il terremoto, invece di ripiegarsi su se stesso, riprende gli studi a Chieti. Quando per la guerra l’istituto viene requisito, Silone non vuole assolutamente interrompere gli studi. A scuola era sempre il primo della classe e studiare gli era congeniale. Arriva al punto di scrivere al fratello minore di “raccomandarlo” presso il Patronato Regina Elena che si stava occupando di lui a Roma.

E allora perché dopo meno di due anni lascia tutto e ritorna a Pescina?

Nei collegi dei preti gli arrivavano notizie dal paese di sopraffazioni ma anche di rivolte. Avvenimenti tristi ma anche nuovi fervori. A due anni dal terremoto la sua terra era ancora sotto le macerie e dal fronte s’intuiva tutta la tragica realtà vissuta dai contadini e dagli artigiani sbattuti in prima linea male equipaggiati e ancor meno motivati. Con gli uomini sbattuti al fronte, in paese aumentava la già misera condizione delle donne rimaste. Nelle manifestazioni in piazza erano sempre in prima fila.

In mezzo a tutto questo, il movimento socialista teneva a Sulmona un convegno regionale e si riorganizzava ricostituendo le proprie sezioni e le leghe contadine. A Pescina e nella Marsica Mario Trozzi, un giovane avvocato sulmonese divenuto consigliere provinciale socialista, parlava ai terremotati e ai cafoni di esproprio dell’agro fucense.

Fuori del convitto dei preti c’era un mondo di ingiustizie e di macerie. Silone non poteva continuare a sorbirsi i predicozzi sull’abbigliamento e sul linguaggio appropriato mentre al suo paese ci si arrabattava nei problemi reali di quotidiana sopravvivenza e di palese ingiustizia. Anche se questo significava interrompere gli studi.

Le lettere scambiate con don Orione tra l’aprile del 1916 e il luglio del 1918 testimoniano il percorso di Silone, pur tra apparenti esitazioni, che lo porta alla scelta definitiva tra cristianesimo e socialismo. In Pane e vino Don Benedetto (l’alter ego di don Orione) di Pietro Spina dice: “Io lo conosco, egli è stato mio allievo. Il socialismo è il suo modo di servire Dio”.

Le leghe contadine

Ritornato in Italia dall’esilio, quando si fermava a casa di Raffaele a Pescina, la sera dopo cena restavano a parlare a lungo da soli. Con il cugino ripercorreva gli avvenimenti dopo il suo ritorno al paese dall’istituto orionino di Reggio Calabria.

Il suo ripresentarsi a Pescina nell’estate del 1917 aveva fatto scandalo tra i parenti. Non solo ha abbandonato gli studi ma nutre un totale disinteresse per i resti dell’eredità paterna. E’ uscito completamente dallo schema familiare di conservazione delle tradizioni agricole e armentarie della famiglia. Si unisce ad altri ragazzi orfani non accolti negli istituti e inizia il suo apprendistato politico tra le leghe contadine di Pescina e il medico anarchico di San Benedetto, Francesco Ippoliti (parlerà di lui in Uscita di Sicurezza). Silone non si sente più solo come nei collegi dei preti.

Nella Marsica i contadini, con il loro pezzetto di terra e un asino, si vedono davanti agli occhi 16.000 ettari di terra prosciugata del Fucino, piana e fertile, di proprietà di uno solo. Il risentimento verso i Torlonia rafforza le manifestazioni socialiste contro la miseria aumentata e il degrado della vita pubblica. A Pescina a più di due anni dal terremoto è seguita una scandalosa speculazione edilizia sulle aree fabbricabili. Gli articoli del diciassettenne Silone, divenuto nel frattempo segretario regionale della Gioventù socialista abruzzese, vengono pubblicati su l’Avanti con grande scandalo dei parenti.

Il 22 maggio 1918 Secondino ascolta il comizio infuocato di Mario Trozzi, il socialista massimalista e futuro deputato, che parla dell’illegittimità del possesso delle terre del Fucino da parte dei Torlonia. Sette giorni dopo Secondino capeggia una sommossa a Pescina contro la caserma dei carabinieri. Dopo la condanna del Tribunale di Avezzano, la vendita di un sito ereditato dal padre servirà a pagare l’ammenda di mille lire, il risarcimento dei danni e le spese processuali.

Il medico di San Benedetto che non si fa pagare dai bisognosi è anche un poeta e un uomo colto i cui scritti di denuncia delle sopraffazioni e ingiustizie circolavano nella lega. A casa sua Secondino legge i settimanali anarchici che arrivavano dagli Stati Uniti. Più tardi gli anarchici marsicani tornati dall’emigrazione influenzeranno il fratello. Dal medico di San Benedetto prende in prestito i libri da leggere ai contadini analfabeti della lega di Pescina.

Giovane giornalista socialista

Un giorno verso la fine degli anni Cinquanta, passavo in macchina con Silone lungo la strada che allora costeggiava il Colosseo, quando lui improvvisamente mi disse: “Vedi quelle arcate, da giovane ho dormito lì sotto”.

Silone aveva lasciato Pescina nell’estate del 1918 probabilmente dopo aver ricevuto qualche indicazione da Trozzi in uno dei suoi comizi in piazza tra Pescina ed Avezzano. Sarà proprio a Trozzi, avvocato, che si rivolgerà nel 1928 dalla Svizzera per difendere il fratello in prigione.

A Roma si iscrive alla Federazione Giovanile Socialista e conduce la vita grama di giornalista per l’Avanti e l’Avanguardia, di cui diventa direttore. Viene pagato pochissimo, appena sufficiente per sopravvivere a Roma. Ha con sé i soldi ottenuti con la vendita di un altro sito del padre e finché gli durano può pagarsi un letto per dormire. Il giorno di Natale del 1919 senza l’aiuto di don Orione avrebbe anche perso l’impermeabile e il cappello.

Nel frattempo, mentre Trozzi veniva eletto deputato per i socialisti, lui diventa segretario della Gioventù Socialista romana. Il giorno va ad aspettare gli operai al gazometro all’uscita del turno. Distribuisce volantini e opuscoli e organizza gruppi di resistenza operaia contro le bande fasciste.

Le difficoltà non spostano la determinazione di Silone di proseguire per la sua strada nella vita politica romana. Il figlio del piccolo proprietario terriero, l’ex seminarista, è un giovane che sin dall’inizio ha intrapreso la sua militanza politica con l’entusiasmo della vocazione e non per necessità di classe. Le difficoltà pratiche che avrebbero fatto desistere il figlio di un cafone, non piegano il giovane “capatosta”. Non si cura dei primi sintomi di asma bronchiale.

A diciannove anni, pur venendo da un paese dell’Abruzzo terremotato, intelligente, orgoglioso, con una buona base culturale e con un forte senso di sé, diventa in poco tempo il leader dell’Unione dei giovani socialisti romani. A Livorno nel gennaio del 1921 può vantarsi senza falsa modestia di aver aumentato la sua organizzazione e la fa confluire nel partito comunista d’Italia.

Dirigente comunista

Ho sentito raccontare dai parenti quello che gli capitava in paese dopo essere diventato comunista. Quando arrivava per rivedere il fratello e insieme camminavano per la strada, la gente si voltava dall’altra parte facendo finta di non conoscerli. “Li scansavano tutti”, ricordava mia madre.

L’animo impetuoso di Silone era rimasto folgorato dalle promesse incarnate nella rivoluzione russa. Lui si era dato alla politica per amore della giustizia e adesso in un colpo solo si poteva porre fine alla povertà e alle ingiustizie sociali. Il partito socialista non prometteva niente del genere.

Tre mesi dopo Livorno si presenta a Pescina e si mette a protestare rumorosamente durante un comizio fascista. I carabinieri lo obbligano a lasciare il paese. Per tutto il decennio gli incarichi di partito lo portano attraverso diversi paesi europei e in Russia. Conosce le prigioni di Spagna e Francia prima di essere espulso.

Svolge in clandestinità l’attività intensissima dell’attivista rivoluzionario, aduso alle lotte all’interno dell’internazionale comunista in cui c’era in gioco la vita. Si avvale di ambienti di fortuna, finisce nelle luride prigioni dei detenuti politici, fronteggia gli scontri delle riunioni politiche e ove necessario usa un linguaggio appropriato.

E’ responsabile degli incarichi clandestini e nel 1927 entra nell’ufficio politico. Ha raggiunto nel partito i massimi livelli.

La tragedia del fratello

Un giorno a casa nostra mia madre stava raccontando a Silone dell’ultima volta che aveva visto Romolo. Era il mese di novembre del 1927 e a Pescina Romolo era entrato nel negozio della cugina Giulia, mia nonna. Mia madre aveva allora quattordici anni ed era presente. Lo ricordava benissimo, alto, slanciato ma robusto, oggi si direbbe dal fisico atletico, lo sguardo dolce, i capelli scuri e folti. Era bellissimo, ci diceva. Romolo aveva allora ventitre anni ed era andato a salutare la cugina Giulia prima di partire. Il padre di mia madre aprì un cassetto per dargli dei soldi e gli disse: “Scrivici, mandaci una cartolina”. Lui rifiutò i soldi dicendo che la nonna materna aveva appena venduto un sito di famiglia, poi aggiunse: “Dove vado non vi posso scrivere, vi comprometterei”.

A quelle parole ricordo l’espressione sofferente di Silone, come avesse un dolore fisico. Interruppe mia madre dicendo: “Gli avevo detto io di lasciare l’Italia. Volevo che venisse in Svizzera. Avrei trovato il modo di fargli finire gli studi. Se non gli avessi chiesto di raggiungermi, Romoletto non sarebbe morto. E’ stata solo colpa mia, se non fosse stato per me sarebbe ancora vivo”.

Romolo in Italia non aveva futuro. Nel luglio del 1921 a Velletri gli era stato impedito di dare gli esami di maturità e da allora, durante l’estate, fino a che non era partito militare nell’agosto del 1924, veniva a Roma nella vana ricerca di un lavoro. Insieme al giovane pescinese Scamolla gironzolavano per le vie di Roma fino a tarda sera. Venivano spesso fermati e condotti al commissariato. Dopo il controllo dei documenti, Scamolla poteva andarsene subito, Romolo invece finiva in gattabuia per la notte. La mattina seguente dopo “una solenne ramanzina e gli avvertimenti opportuni” veniva rilasciato. All’indomani ricominciavano a girare per la città alla ricerca di qualche lavoretto. Non c’era niente da fare per loro tranne finire regolarmente al commissariato.

Senza un lavoro, a Pescina Romolo frequentava i cugini artigiani compresi quelli anarchici tornati dall’America. Stava spesso insieme al cugino falegname Pomponio che continuerà a stargli vicino anche in seguito durante la terribile prigionia. A Pomponio Silone riserverà il massimo della riconoscenza. Nell’autunno del 1922 quando ha diciotto anni, la stessa età che aveva il fratello maggiore quando aveva capeggiato una rivolta in paese, Romolo viene condannato per aver affisso a Pescina volantini di plauso per l’attentato anarchico del teatro Diana di Milano.

E’ orgoglioso del ruolo del fratello nel partito comunista e sicuramente vorrebbe seguire la sua strada. Silone per un senso protettivo voleva invece che Romolo si tenesse lontano dalla politica attiva. Un campione nelle gare sportive a scuola, al paese, sotto le armi, poteva diventare facilmente spavaldo. Partecipava alle gare podistiche nei paesi vicini arrivandoci a piedi. Fece la stessa cosa andando a gareggiare un paio di volte a Sulmona. Ogni volta vi arrivò a piedi e vinse. Questo gli consentiva di tornare in treno.

Un misto di forza fisica, idealismo e ingenuità non sarebbe stato in grado di evitare i pericoli di un militante politico in lotta contro un regime totalitario. Avrebbe finito con il mettersi nei guai. In Pane e vino Silone scriverà: “L’arte cospirativa ha le sue regole. Se non si conoscono e non si rispettano, si scontano con anni di carcere, talvolta con la vita”.

In effetti Romolo prima di partire per un viaggio la cui meta doveva restare segreta aveva fatto il giro degli amici, dei parenti e dei conoscenti (come ricordava anche mia madre). Mezzo paese. Avevano capito tutti che partiva per raggiungere clandestinamente il fratello all’estero e che dalla Svizzera Silone gli stava organizzando l’espatrio. Silone parlò con me e mio marito del fatto che spie fasciste dovevano aver seguito il fratello. In particolare ci parlò di una nota spia fascista di Pescina. Il nome era stato reso pubblico dopo la guerra nell’elenco ufficiale delle spie dell’OVRA. L’obiettivo dei fascisti era arrivare a Secondino attraverso Romolo.

Mentre Romolo andava a salutare mia nonna a Pescina, per Silone, già fuoriuscito, sta iniziando un terribile travaglio politico. E’già da qualche tempo in crisi verso il partito comunista. Ha conservato un pensiero critico e ha avvertito in anticipo l’evoluzione totalitaria dello stalinismo. Mentre Silone pensa a tutto quello che ha sacrificato, agli sforzi e i sacrifici fatti per un partito che si sta rivelando diverso da quello che prometteva, il fratello, quando ormai era a pochi chilometri dal confine svizzero, viene arrestato. Finisce in una prigione fascista accusato di strage e attentato al re e viene ripetutamente seviziato. I colpi al torace con sacchetti di sabbia lo scardinano dentro. Comincia per Silone l’angoscia per il fratello in prigione con un’accusa da pena di morte. Mentre Romolo, ignaro della crisi politica del fratello, si proclama orgogliosamente comunista, lui non può fargli sapere la fine di un’illusione. Non può dire al fratello della sua crisi politica.

Senza mezzi, senza carte, Silone fa lavoretti anche per mandare qualche soldo al fratello. Si riacutizza l’asma bronchiale. Nel riposo forzato del ricovero ospedaliero a Davos, inizia a scrivere. Liberandosi dalla cotta di ferro del partito-chiesa che lo avvolge, si sprigiona un’energia, una forza nuova: l’immaginazione, la fantasia, la capacità di conoscere e penetrare la realtà umana. Già Gramsci aveva visto in Silone il “letterato”.

Nascono nella sua mente immagini e vicende. Rivede la storia del paese, quella del fratello e rivive tutto in maniera epica, eroica ma con un’ironia affettuosa. Vede il suo passato come un altorilievo, da lontano: tutte le sue opere saranno intrise di avvenimenti personali.

Nel luglio del 1931 si fa espellere da un partito dove scomuniche e trame sono all’ordine del giorno. Ha rotto con il comunismo prima dei grandi processi di Mosca. Il mese prima il fratello è stato condannato a dodici anni e adesso può sperare di rincontrarlo al termine della detenzione.

Invece Romolo morirà tre anni dopo a vent’otto anni. Lui, forte, dal fisico atletico e un po’ guascone che mentre correva per le strade abruzzesi in cuor suo aspirava a seguire le orme del fratello maggiore, era finito annientato dalle sevizie, dalla fame, dal freddo, dal carcere duro. Nella figura di Berardo in Fontamara c’è la premonizione della fine del fratello.

Per Silone sarà il dolore, “il tormento intimo” di tutta la vita insieme a un terribile senso di colpa per avergli chiesto di raggiungerlo.

Dopo la morte del fratello Silone aumenta l’impegno nella letteratura. Ha anche messo in conto di essere assassinato in Svizzera. In giro ci sono informatori ed infiltrati della polizia fascista. Il regime non gli perdona il successo internazionale di Fontamara che ha calamitato l’attenzione mondiale sui misfatti della dittatura fascista. Successo reiterato dagli altri suoi romanzi. In effetti da parte dei fascisti si arrivò a progettare di farlo fuori. Ma c’è anche l’Internazionale Comunista che assassina i dissidenti in Russia e all’estero. Forse sarebbe stato assassinato alla svelta, in un angolo buio, come accadrà al cognato Pietro Tresso, capo della minoranza trockijsta italiana, alla fine del 1943 in un bosco francese.

L’impegno per l’unità e l’autonomia socialista

Nell’estate del 1941 accantona la letteratura e accetta di guidare la centrale clandestina del partito socialista, trasferita in Svizzera dalla Francia, per aiutare i partigiani in Italia assieme agli alleati. Finisce in una prigione svizzera anche se per poco, non avendo ottemperato all’obbligo di non occuparsi di politica.

Il ritorno in patria avviene nel novembre 1944.

Un giorno di fine giugno del 1953 a casa nostra lo sentimmo dire con apparente indifferenza “Ho fatto sempre a meno di Pescina, continuerò a farne a meno”.

Era successo che dopo aver abbandonato la politica nel ‘49/’50 – l’aveva chiusa subito con la Costituente, quando voleva impedire che Togliatti si impadronisse del partito socialista – dopo gli ultimi attacchi velenosi sul piano letterario da parte comunista, aveva deciso di tornare ad un ruolo attivo in politica. Perciò a maggio del 1953 si era presentato per il partito socialdemocratico tenendo un comizio in piazza a Pescina davanti a ad una massa di comunisti di stretta osservanza con il ritratto del “piccolo padre” appeso in camera da letto. Nel suo paese era stato sonoramente sconfitto.

L’impegno per la libertà della cultura

Man mano finisce in Silone la speranza che il socialismo possa giocare un ruolo autonomo tra la democrazia cristiana e il partito comunista. Di fronte all’impossibilità di una via politica socialdemocratica, di fronte al dominante conformismo culturale catto-comunista, si impegna nella difesa della libertà della cultura. In sostanziale isolamento. Con Nicola Chiaromonte fonda nel 1956 Tempo Presente dove intellettuali e scrittori di prestigio internazionale possono esprimersi liberamente. A questo impegno dedica una grande mole di lavoro.

L’ultimo impegno artistico

Le ultime immagini che ho di un Silone di ottimo umore sono legate a L’avventura di un povero cristiano. Come aveva scritto nel 1937 a Rainer Biemel, la creazione artistica lo rendeva felice.

A Rocca di Cambio nel 1966 durante l’estate trascorsa nell’albergo Montecagno gli si leggeva in viso il grande entusiasmo ritrovato. Stava facendo ricerche attraverso numerose visite a santuari medievali: aveva iniziato a scrivere l’ultimo romanzo.

Nel marzo del 1968 il libro fu accolto con grande successo dal pubblico, benché nel silenzio ostile della sinistra e le riserve di una parte della stampa cattolica. Fu anche un grande successo teatrale. Era un Silone felice e di sicuro in buona salute quello che accompagnai alla messa in scena di Celestino una sera al Teatro delle Arti, vicino a Via Veneto.

Stava invece per iniziare una campagna di accuse riguardo a finanziamenti indiretti della CIA all’Associazione per la Libertà della Cultura ed al suo quotidiano impegno con Tempo Presente nella sede di Via Sistina.

L’ultimo Silone

Nel dicembre 1968 Silone e Nicola Chiaromonte chiusero Tempo Presente. La rivista era stata l’ultima e forse la più amata delle numerose riviste che Silone aveva promosso o diretto sia in Svizzera che in Italia.

Con la chiusura di Tempo Presente qualcosa si spezza dentro di lui. La salute inizia a declinare. Al matrimonio di mia sorella Marcella a Roma nel 1974, già stava male. Torna a Pescina l’ultima volta nel 1975 per il funerale dell’amico comunista di una vita Giambattista Barbati e non sta affatto bene.

Negli ultimi tempi restava solo in casa, anche per lunghi periodi. Ma lui non voleva farlo sapere. Lo trovavamo con gli abiti di una volta di vecchie lane pregiate, spesso con qualche macchia sul gilet o sui pantaloni. Si isolava volutamente, spinto dal suo insopprimibile orgoglio. Un eremita come Celestino V. Ho la copia di una lettera che la Valangin scrisse subito dopo la morte di Silone dalla quale si intuisce come lui abbia fatto di tutto per non farsi vedere malato.

Dopo una degenza nella clinica Pio X a Roma, viene portato a Ginevra dove morirà nell’agosto del 1978.

Le radici dell’anima

In Svizzera, in preda alla nostalgia per il suo paese, credeva che le radici dell’anima non potessero vivere trapiantate lontano dal paese natale. Morendo a Ginevra ha forse capito che la sede della sua anima si trovava in Svizzera, il paese dove era stato amato e rispettato come meritava.

Pescina, dove ha voluto riposare per sempre, è il ricordo di Fontamara, il luogo della sua infanzia felice con i genitori prima del terremoto, quando si sentiva “avvolto” dalla sicurezza paterna “in una calda atmosfera di affettività e tenerezza femminile” (Pane e vino).

Maria Moscardelli

1 marzo 2011