“Fonte Amara” di S. Pugliese: una vita rivisitata

1. La prima biografia di Silone in lingua inglese e il caso “Silone-spia”

La biografia di Silone (“Bitter Spring. A Life of Ignazio Silone”, New York, 2009) che lo storico americano Stanislao G. Pugliese ci offre, a conclusione di un decennio di capillare lavoro di documentazione e ricerca, è la prima in lingua inglese ed appare dopo che da qualche anno la saggistica storica su Silone si è concentrata sul caso “Silone-spia”, con una “querelle” politico-storiografica e una campagna mediatica scandalistica.

La metodologia storica che Pugliese si è assegnata è quella di non realizzare una voluminosa biografia, caratterizzata da aspetti autoritativi ed unilaterali, bensì una biografia fluida, a grandi linee, in grado di lasciare al lettore l’ultima opzione sugli argomenti od episodi controversi.

“Bitter Spring” di Pugliese si propone, quindi, come biografia d’ampio respiro. E’ perciò opportuno a questo punto inquadrarla nella intera vicenda della critica storica e letteraria dell’opera e della vita di Silone.

(a) La prima fase della saggistica su Silone si collega a quella che François Furet (“Le passé d’une illusion. Essai sur l’idée comuniste au XXe siècle”, Paris, 1995) chiama la “prima generazione” dei “disincantati” del regime sovietico, disillusi dalle lotte di frazione interne della Terza Internazionale e dalla realtà sovietica al tempo di Stalin. Silone, comunista clandestino, fuoruscito e ricercato dalla polizia fascista, pur nel pieno della crisi per la detenzione del fratello e della personale indigenza, non riesce più a sopportare le ipocrisie e le falsità della “ragion di partito”. Fattosi espellere dal Partito Comunista (come racconterà in “Uscita di sicurezza” nel 1965), senza legarsi alla frazione trotzkista italiana guidata dal cognato Pietro Tresso, sviluppa quelle che già erano le sue tesi politiche nel partito, sublimandole nel romanzo “Fontamara” (1933), epopea rivoluzionaria dei “cafoni”, i contadini del mezzogiorno d’Italia.

Accanto alla valenza letteraria e al vivido antifascismo (“la più forte ed efficace opera letteraria antifascista degli anni ‘30”, pag. 112 della biografia), in Fontamara si colgono le tesi politiche sul ruolo rivoluzionario dei “contadini”. Non per nulla vengono avvertite dallo stesso Trotsky in una recensione famosa, scritta nel 1933, su un bastimento italiano che lo portava verso una delle tante tappe del suo esilio (p. 131). In questa prima fase Silone è, senza contestazione di alcuno, esponente di spicco della cultura antifascista in esilio e, oltreché romanziere di successo internazionale, teorico politico anti-totalitario con opere come “Der Fascismus” (1934) e “La scuola dei dittatori” (1938). Nessuna divaricazione viene rilevata dai critici e dai suoi stessi contestatori, fascisti e stalinisti, tra il contenuto delle opere, vietate e sconosciute nell’Italia fascista, e le vicende personali.

(b) Una seconda fase si apre per Silone con il rientro in Italia nel 1944, dopo aver diretto, durante la guerra, il Centro Estero del Partito Socialista Italiano ed aver collaborato con l’OSS per sconfiggere il fascismo. In un paese in cui quasi tutti gli intellettuali organici del fascismo si sono riciclati spostandosi nel comunismo, Silone diventa un protagonista della socialdemocrazia italiana, nonché un difensore della libertà della cultura, contro l’asservimento partitico, economico e clericale degli intellettuali. Questo è il suo maggior handicap, rispetto alla critica letteraria italiana e alla grande stampa. Finisce, quindi, che la sua militanza ideologico-politica gli viene rinfacciata e le sue opere letterariamente denigrate, sia da destra che da sinistra (dagli “ambienti reazionari” e dalle “élite culturali della sinistra dominate dal PCI”, p. 12). Silone, scrittore da tempo di fama internazionale, in Italia viene rappresentato come un autore inetto e di poco conto.

Qualcosa cambia nella critica letteraria siloniana con la pubblicazione di “Uscita di sicurezza” (1965) ed, infine, con “L’Avventura di un povero cristiano” (1968), ma non intacca l’avversione del Partito Comunista verso il “rinnegato”.

(c) Una fase postuma ha inizio a circa vent’anni dalla sua morte. In Italia Dario Biocca e Mauro Canali costruiscono, sulla base di informative di polizia non attribuibili a Silone, ipotesi di collusioni poliziesche di Silone negli anni Venti del secolo ventesimo e di sue ricadute spionistiche durante tutto l’arco della vita, rispolverando anche accuse allo scrittore di aver svolto durante la guerra fredda iniziative culturali anticomuniste, finanziate dalla CIA. Ha inizio una campagna storico-scandalistica su Silone, spia fascista della prima ora, insinuatosi nel neonato Partito Comunista e nelle lotte clandestine. Si stabilisce una divaricazione tra una cripto-vita di Silone e le sue opere. Silone è, per dirla alla Italo Calvino, un “visconte dimezzato”, con una parte buona, gli scritti, e una parte cattiva, una vita di occulte reiterate delazioni.

Il contrasto è troppo stridente per sembrare plausibile al di fuori del sensazionalismo giornalistico e della ricerca storica spazzatura. Giungono così in soccorso informazioni su presunte malattie mentali, cui fanno seguito elucubrate interpretazioni psicoanalitiche di alcune opere e la ricerca forzata, in esse, di personaggi minori che nella lotta antifascista tradiscono i compagni, oltre all’ipotizzazione di velate auto-confessioni dello scrittore. Le stesse notazioni autobiografiche che Silone elabora per spiegare la sua angosciosa uscita dal Partito Comunista non vengono lette, in chiaro, come memoralistica politica, ma, addirittura, come sfacciata copertura di una sordida operazione di sganciamento spionistico. Le opere di Silone divengono così, per gli storici sensazionalistici, una selva intricata di tradimenti, rimorsi e redenzioni, mascherati da false motivazioni morali, politiche e ideologiche.

Con minor risalto mediatico, lo storico Giuseppe Tamburrano ha replicato, punto per punto, evidenziando la infondatezza documentaria e logica di tale presunta, gratuita e immotivata, attività di “informatore” della polizia. Attività mai contestata a Silone, né dal regime fascista stesso quando, con risonanza mondiale, veniva attaccato dallo scrittore nelle opere degli anni Trenta; né, in seguito, dai comunisti italiani quando si trovavano contro, in dure polemiche politiche, uno dei fondatori e dirigenti del PCd’I che aveva lasciato il partito.

Di nuovo giungono in soccorso informazioni su una presunta relazione omosessuale tra Silone ed il Commissario fascista Guido Bellone.

Il troppo storpia. E’ difficile credere che il propagandista politico in veste di scrittore esalti, da un lato, i cafoni rivoluzionari contro il fascismo, e dall’altro, li tradisca sempre, senza che nessuno, in una lunga vicenda di oltre sessant’anni di contrasti pubblici con fascisti, stalinisti, clericali, mai scopra gli altarini; e che, in un’Italia dove poco resta segreto, il “melodramma” della sfrontata vita doppia di Silone, esca fuori un quarto di secolo dopo la sua morte, dalla viscida interpretazione di carte di polizia anonime o di firmatari diversi e quasi tutte dattiloscritte.

Diviene, quindi, di particolare rilievo il contributo storiografico di Pugliese, che si propone di spaziare su tutte le fasi della vita e delle opere letterarie di Silone e che intende affrontare, con completezza di riferimenti bibliografici e documentari, tutti i punti cruciali dell’avventura umana e intellettuale dello scrittore abruzzese, con le sue eventuali ombre e profondità.

E’ indubbio, tuttavia, che le ombre e profondità sottolineate nella biografia, mentre rendono l’argomento suggestivo ed il libro più interessante, allo stesso tempo aprono nuovi interrogativi.

2. Il senso di colpa durato tutta la vita !

Pugliese – proprio per la sua programmatica intenzione e prassi di equidistanza da tutte le impostazioni e polemiche storiografiche – non manca (ma forse esagera!) nel puntualizzare, ogni qualvolta potrebbe apparire troppo messa in risalto la positività di un momento della vita del biografato, l’alternativa che dietro l’evento ci possano essere i rapporti di Silone con il Commissario Bellone, e quindi con la polizia politica fascista.

Il tormentone del tipo, “tra i traumi intimi di Silone: lo spionaggio” (pag. 15), “il peccato originale di Silone … la sua collaborazione con la polizia segreta” (pag. 94), va avanti per tutto il libro (alcuni esempi, tra gli altri, alle pagine 27, 104, 105, 154, 188, 248, 271, 292, 311, 330, 340).

Si va dal Silone in Svizzera “tormentato” e “preda del senso di colpa per il suo rapporto con Bellone”, al “senso di colpa impresso per sempre nella sua anima”, al “suo passato torbido”, al “bisogno di redenzione”, a “l’inestinguibile senso di colpa”, etc. Per finire con “disegnando abilmente ‘un’uscita di sicurezza’ dal partito, si liberava anche dal legame di schiavitù con Bellone” (p. 311).

Quando, durante la Seconda Guerra Mondiale, Silone venne imprigionato in Svizzera per attività politica, il timore di Silone che venissero scoperti i nomi dei compagni socialisti in Italia con i quali era in contatto come responsabile del Centro Estero del Partito Socialista Italiano, secondo Pugliese sarebbe derivato dal suo “perenne senso di colpa” e dal ricordo della sua personale esperienza con i metodi usati dalla polizia fascista (definiti da Silone “diabolici metodi di infiltrazione e corruzione”) per portare le persone a diventare dei traditori (pag. 154). Come non ravvisare che la conoscenza di Silone dei metodi della polizia fascista gli derivava dal suo passato di comunista clandestino e dal ruolo di responsabile della Stampa e Propaganda e degli incarichi clandestini del partito?

Nella biografia viene collegato il suo rifiuto nel dopoguerra di far parte del comitato per l’epurazione dei giornalisti fascisti al ricordo “del suo torbido passato con Bellone” (p. 188). Al contrario, se questo fosse stato il caso, avrebbe potuto dall’interno manovrare per coprire qualsiasi evidenza che fosse eventualmente emersa a suo carico. Senza di lui il comitato funzionò perfettamente e nulla emerse su Silone. Silone era, sic et simpliciter, contro tutti quelli che pretendevano di fare dell’antifascismo un mestiere (p. 189, p. 205), così come lui, a differenza di Koestler, non faceva dell’anticomunismo un mestiere: “Una volta ero comunista; non me ne vergogno” (p. 209).

Il culmine del “refrain” sui timori e il senso di colpa per l’attività di confidente e per il suo rapporto con il Commissario Bellone viene raggiunto a pagina 330 della biografia. “Al senso di colpa che Silone si è portato dietro tutta la vita per il suo rapporto con Bellone si devono alcune tra le più forti e sentite opere di narrativa del ventesimo secolo”.

La lotta di una vita per Silone non sarebbe stata contro i totalitarismi per la giustizia e la libertà, bensì contro i suoi rimorsi!

Questo è in dialettico contrasto con quanto la biografia stessa ricorda riguardo alle “stimmate roventi” ed il “lutto” perenne per la sua “gioventù” che Silone si portava dietro per ragioni assai più idealistiche (pag. 103).

In definitiva, il “senso di colpa durato tutta la vita per il rapporto con Bellone” che avrebbe tormentato Silone, gli è attribuito senza alcun supporto documentale o storico. E’ un’illazione che non trova alcun fondato riscontro.

3. Fonte amareggiata

In nome della completezza storica c’è un aspetto che Pugliese non intende trascurare: la personalità ed il carattere di Silone.

Per darne un’immagine il più possibile completa Pugliese ha a disposizione una testimone esclusiva che afferma di essere l’unica ad avere conosciuto bene lo scrittore.

E’ una fonte preziosa e unica che non rende necessario verificare se non sia inquinata, se non ci sia bisogno di filtrarla contro un eventuale intorbidamento. E’ la vedova di Silone, è una donna colta, ma ha soprattutto un pregio: viene dal mondo anglosassone. Lei stessa ha rivendicato il suo differente milieu: “Ho fatto esperienza (con poche eccezioni) … degli Italiani al loro peggio” (pag. 291).

Pugliese riprende senza commenti le esternazioni e le confidenze che la vedova di Silone gli ha rilasciato negli ultimi tre anni di vita, quando il marito era già morto da cinque lustri; e le dissemina lungo tutto il libro, al fine di fornire al lettore, “ad abundantiam”, i mezzi per conoscere l’uomo Silone.

Secondo Darina Silone (ha sempre voluto essere chiamata con il cognome del marito, e non quello della sua famiglia di origine, Laracy), Silone era un uomo dal ”carattere estremamente difficile” (p. 5), dalle “molte verità” (pag. 6), dalla calligrafia “misteriosa ed impenetrabile” (a pag. 13), con tendenza a minacce di suicidio (pag. 110), capace di vantarsi agli occhi di una giovane donna come lei, appena incontrata in Svizzera, con il racconto di “ogni genere di storie” (p. 169).

Ed ancora: “la personalità enigmatica ed esasperante” di Silone (p. 177); Silone stranamente incapace di capire e pronunciare la parola inglese “verità” (p. 179), il suo “carattere ambiguo” (p. 180), “un mistero persino” per lei (p. 181); il tentativo di suicidio intorno al Natale 1950 (p. 273). Lei dovette distruggere la corrispondenza personale di Silone dopo la sua morte poiché “nessuno avrebbe mai potuto comprenderla” (pag. 293).

Silone aveva disposto che la sua corrispondenza privata non fosse pubblicata e non che fosse distrutta. Oltre alle lettere che don Orione aveva scritto a Silone, dovevano esserci le numerose lettere inviate negli anni a Silone da Gabriella Seidenfeld e Aline Valangin.

Darina Silone descrive Silone come un uomo “affetto non solo da depressione, ma probabilmente anche da schizofrenia”, “orrendo”, “senza alcuna attitudine per le relazioni umane” (pag. 174), spesso “crudele”, con “relazioni extraconiugali”, “noncurante nei suoi tradimenti”. Silone sarebbe stato affetto dal “proverbiale complesso Madonna-puttana”, originato dalla “semiprostituzione” (!) della madre vedova (p. 175). Per non dimenticare anche “che il loro matrimonio non era stato consumato” (p. 383).

Le affermazioni su Silone sono inattendibili.

All’inizio della campagna scandalistica, prima ancora delle affermazioni di Darina Silone, Giovanni Casoli in “L’incontro di due uomini liberi: Don Orione e Silone” (a pag. 59) scriveva: non essendo stato trovato “un plausibile o almeno credibile, o non incredibile, movente, dato che l’ipotetica spia Silone non ricavò alcun vantaggio, neppure il più piccolo sollievo per il fratello Romolo, da una tale attività, …una tale attività insensata e inutilmente pericolosa servirebbe solo a definire Silone un pazzo clinico o un amorale gratuito, cose entrambe che sono puntualmente smentite, attimo per attimo, da tutta la vita e l’opera di Silone.”

Fino a che l’anziana signora racconta, “pro domo sua”, i fatti caratteriali e interpersonali di Silone – senza mostrare alcuna comprensione almeno per le tragedie familiari che il giovane Silone aveva vissuto – l’intervento asettico del biografo ritiene di poter esimersi dal soppesarli e verificarli.

Ma quando – a proposito di quella che il biografo stesso definisce lo “scandaloso rigetto da parte dell’ambiente letterario italiano” (pag. 295) – la vedova ne attribuisce la colpa a Silone (“Quella situazione era solo colpa di Silone, del suo – per dire il meno – carattere estremamente difficile”, pag. 5), la misura della inaffidabilità storica di questa fonte “amareggiata” è colma. Come se non fosse storicamente certo e incontrovertibile che la sfortuna letteraria di Silone in Italia si è realizzata per la posizione minoritaria di fronte ai due blocchi, quello comunista e quello democristiano, tanto dei socialdemocratici quanto degli intellettuali raccolti attorno a Tempo Presente (come ricostruito nei saggi di Massimo Teodori).

Quanto al “carattere estremamente difficile”, come noto in Svizzera Silone aveva un gran numero di amicizie e frequentazioni cultural politiche con, tra gli altri, Thomas Mann, Bertolt Brecht and Robert Musil, come evidenziato anche nel libro (p. 94, 111 ecc.). Così come aveva continuato a mantenere rapporti cordialissimi con tante persone in Italia e all’estero. Enorme era la corrispondenza, anche se una parte è ancora sconosciuta. Per non parlare degli incontri conviviali con collaboratori e scrittori di Tempo Presente .

Non era colpa sua se le persone con le quali aveva condiviso “momenti di intensa compagnia ed amicizia” (p. 211) nel partito comunista gli si erano rivoltate contro. Ma la stessa biografia registra, all’inverso, che per la dirigente comunista Camilla Ravera, che aveva condiviso con Silone attività clandestine per il partito, lui era “affettuoso, fraterno e molto cordiale” (p. 73)

Sono numerose le testimonianze su Silone gentile e generoso nei rapporti umani. Intanto ci sono gli scritti autobiografici e l’importante rapporto epistolare e personale con le due donne che hanno amato Silone – Aline Valangin, intellettuale, scrittrice, pianista, appartenente al club di Carl Gustav Jung a Zurigo (l’ultima sua lettera a Silone è datata 14 agosto 1978, quattordici giorni prima della morte di Silone), e Gabriella Seidenfeld, la fedele compagna ebrea con la quale aveva condiviso gli ideali politici e che lo amò finchè visse (morì l’anno prima di Silone). Inoltre, sono tante le testimonianze su Silone rese pubbliche tra gli altri da Stefano De Luca, Franca Magnani, Claudio Marabini, Paolo Milano, Geno Pampaloni e Franco Simongini. Altri, tra quelli che lo hanno conosciuto, hanno prodotto importanti saggi complessi su Silone, tra questi: Enzo Bettiza, Luce d’Eramo, Vittoriano Esposito, Gustaw Herling, Iris Origo, Gisella Padovani, Margherita Pieracci Harwell. Da tutti costoro traspare univoca una assai diversa interpretazione del carattere di Silone, che si potrebbe riassumere con le parole di Margherita Pieracci Harwell, docente di Letteratura Italiana all’Università di Illinois, Chicago: “In Silone, discrezione e pudore rasentavano l’ombrosità” (“Un cristiano senza Chiesa”).

Insomma, come si legge nei ricordi dei compagni politici in Svizzera, dei socialdemocratici italiani, dei collaboratori di Tempo Presente, dei vecchi amici marsicani (da alcuni dei quali pur diviso nel dopoguerra dalle diverse scelte politiche) e dei parenti, Silone manteneva rapporti cordialissimi, assai alla mano, ben diversi da quelli che intratteneva con politici avversi e con intellettuali allineati con le burocrazie di partito.

Tante persone sono ancora in vita, in grado di testimoniare.

A meno che non si voglia indicare come manifestazione di cattivo carattere l’esempio di Silone che non apre bocca durante una cena (p. 135) oppure quando a Londra in casa di un ambasciatore si alza da tavola per andare a seguire una partita di calcio. Questo comportamento si può sicuramente perdonare ad un uomo che, avendo vissuto vicende personali e politiche di rilievo eccezionale, non si sentiva sempre di assecondare certi formalismi.

Sul fatto che fosse circospetto, guardingo, come di uno abituato a guardarsi le spalle (pag. 221), basterebbe ricordare la sua vita da comunista clandestino ed i suoi incarichi di grande responsabilità nel Partito in Italia e all’estero. Ma soprattutto c’era stata la vicenda di Tresso, suo amico nel partito e compagno poi marito di Barbara Seidenfeld, e del significato che la sua persecuzione ha avuto per Silone. Anche per la vicinanza con Gabriella Seidenfeld, Silone aveva vissuto in prima persona la caccia a Tresso, trotzkista, fatta dagli agenti comunisti, la sua prigionia in Francia, ed infine l’ evasione per finire fucilato con altri tre trotzkisti per mano di stalinisti in un bosco nei pressi del maquis. Per non parlare della fine di Trotzky e degli altri compagni giustiziati in Svizzera, in Francia e in Russia.

Su una cosa il giudizio di chi lo ha conosciuto è unanime: sul fatto che fosse spesso solo. Anche nella biografia si legge che “Silone era solo da morto come lo era stato in vita” (p. 290).

La solitudine tra le mura domestiche e fuori casa negli anni ’50, poi negli anni ’60 non deve essergli pesata troppo. Per Silone, che aveva sperimentato la più totale solitudine a 14 anni, finchè non aveva incontrato Gabriella Seidenfeld, la solitudine poteva essere costruttiva. Su Tempo Presente, sett-ott. 1962, a proposito di Angelo Tasca scrisse: “la sofferenza della solitudine giovò senza dubbio all’approfondimento del suo spirito.”

Ma durante tutti gli anni ’70, quando la salute declinava, l’asma non gli dava tregua e si muoveva con difficoltà, la solitudine non deve avergli fatto bene. Basterebbe rileggere le testimonianze, tra gli altri, di Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Gustaw Herling, Iris Origo, Margherita Pieracci Harwell e di tanti altri.

Quanto al Silone “con tendenze suicide”, Darina Silone, che di Silone aveva letto tutto, sapeva anche della lettera melodrammatica alla Valangin scritta da Silone alla fine burrascosa della loro relazione in Svizzera. In ogni caso, il riferimento al suicidio contenuto in questa lettera si può considerare una “creazione intellettuale” di Silone.

Nell’intervista a Enzo Giannelli del 3 febbraio 1971, Silone spiegò: “Per me il suicidio è un’aberrazione. Credo che non sia giustificato da nulla, né dalla miseria, né dalla persecuzione. E’ un esaurimento dello slancio vitale. …Posso immaginare una situazione … In Vino e Pane c’è un anarchico, un musicista, un certo Uliva che si uccide e, prima di uccidersi, fa un ragionamento di completa disperazione sulle sorti dell’uomo. Ma è una creazione intellettuale più che altro”.

Anche prima di allora, l’11 aprile 1954, ne “La Fiera Letteraria”, alla domanda “Cosa pensi del suicidio?“, Silone rispose: “E’ una delle tante cose che non riesco a capire”.

4. Disillusione

La biografia recepisce molti spunti dalla mito-autobiografia della vedova di Silone che, molto più giovane del marito (aveva diciassette anni meno di lui), l’aveva conosciuto già famoso scrittore all’estero. Ma che, poi, con il rientro in Italia, aveva presto subito il trauma del mancato successo sociale ed economico nel generale ostracismo politico e culturale a Silone da parte della società italiana clerico-fascista e catto-comunista. Dopo il fiasco di alcune iniziative culturali avviate assieme, si era defilata soggiornando frequentemente all’estero, massime in India e in Grecia, senza più collaborare politicamente con il marito nelle quotidiane iniziative e testimonianze minoritarie.

Gli scritti autobiografici inediti (pag. 164) consistono forse dei dattiloscritti che, dietro suggerimento di Dario Biocca, lo storico inventore della doppiezza spionistica di Silone, ella aveva preparato e distribuito a tutti i conoscenti agli inizi del 2001, intitolati “Religious Experiences” (tre pagine, marzo 2001, apparse anche integralmente sul Corriere della Sera il 25 agosto 2003 sotto il titolo “L’avventura di Darina, Io povera cristiana”), “Esperienze Politiche” (cinque pagine, aprile 2001), ed il discorso preparato per l’India su “The Making of an Earth Citizen” (sette pagine, gennaio 1989).

Darina Silone sembra anche rivendicare un ruolo di ispiratrice della spiritualità di Silone. Secondo la vedova fu grazie a lei che Silone nel 1942 scrisse il messaggio pacifista dopo che era stato dalla futura moglie introdotto alle idee di Gandhi (pag. 179); ed ancora lei lo avrebbe introdotto a Simone Weil e a Père Charles de Foucauld (p. 259 e 281). Quanto al pacifismo, basta ricordare che il giovanissimo Silone iniziò la sua vita politica guidando da ragazzo le manifestazioni dei contadini marsicani contro la Grande Guerra e in seguito gli interventi pacifisti da giovane attivista socialista. Quanto alla religiosità, è il socialismo cristiano del teologo svizzero Leonhard Ragaz che influenzò Silone, già predisposto dalla religiosità medievale della sua infanzia pescinese. Silone sapeva bene dell’ammirazione di Simon Weil per “Pane e Vino”, e quanto a Charles de Foucauld, Silone era solito visitare un convento delle Petites Soeurs nel quale era suora la figlia di una sua vecchia amica, come testimoniato dalla Pieracci Harwell.

I rapporti coniugali, come ricordati dalla vedova e che poco hanno a che vedere con eventi oltretutto risalenti a decenni precedenti il suo incontro con Silone, purtroppo sono stati usati come prove indiziarie per rinforzare le claudicanti costruzioni di Dario Biocca, lo storico accusatore, ammesso anche a frugare nello studio personale di Silone.

5. Un povero disgraziato !

Alle precedenti osservazioni su taluni opinabili stilemi della biografia – gli incisi sul senso di colpa per Bellone e poi quelli sull’uomo Silone, ripetuti quasi a caso, del genere “delenda Cartago” – se ne possono aggiungere altre.

Nel “Prologue” della biografia, a pagina 9, si rinviene un ritratto di Silone che lascia senza fiato.

Oltre ad essere un uomo che “non ha mai avuto nessuna delle qualità necessarie ad una carriera politica di successo”, Silone era “un marito difficile, un amico irritante, un politico mediocre, un conoscente distaccato, una presenza scostante in pubblico, un parente indifferente e freddo, sovente affetto da psicosi maniaco-depressiva e tendenze suicide …”.

Insomma, un povero disgraziato!

A questo ritratto, palesemente derivato da dicerie non controllate, Pugliese aggiunge altre pennellate.

Silone “penosamente timido”? Siccome non si sta parlando del Silone “riservato sul sesso” di pag. 356, forse si riferisce al fatto che fosse dotato di buone maniere. Eppure la stessa biografia non trascura alcuni fatti incontrovertibili. Da ragazzo organizza rivolte a Pescina (da pag. 61); tiene testa a rettori di istituti religiosi e compie coraggiose scelte di vita (pag. 66); divenne segretario della gioventù regionale socialista a diciassette anni, poi segretario dell’unione socialista romana e quindi della federazione giovanile socialisti italiani, e dopo quando a vent’anni fu uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia “non era intimidito dai compagni più preparati” (p. 68); quando parlava dal podio ai suoi compagni di partito “era sicuro di sé, quasi ai limiti dell’arroganza” (p. 70) e così in seguito nella sua vita.

Silone “a disagio in pubblico e costantemente insicuro” ed “un politico mediocre”? Sicuramente non si tratta del Silone “la cui ascesa nei ranghi della sinistra fu sbalorditiva”(pag. 67) e che “non accettò di farsi intimidire dal prestigio dei Russi” (p. 72). Lo stesso che, tornato in Italia nel dopoguerra, dopo la scissione socialista, ha fondato un partito; ha apertamente criticato la politica del Gramsci divenuto un’icona della sinistra, senza curarsi di aumentare così “l’ostracismo da parte dell’egemonia culturale della sinistra” (p. 74); ha organizzato l’Associazione per la Libertà della cultura; non ha esitato a contrastare pubblicamente Sartre e Neruda ed altro ancora.

Per “politico mediocre” forse si intende quanto scrisse Salvemini: “Silone non ha le qualità di un uomo politico pragmatico e smaliziato, ma è una splendida figura morale e intellettuale” (p. 191).

Certo che “la grettezza, venalità e corruzione del dopoguerra” (p. 187) era quanto di più lontano dai suoi sentimenti, così come le ambiguità e i compromessi dei partiti fatti di politici protettori e procacciatori di posti di lavoro, mentre per Silone la politica doveva “fornire gli strumenti necessari per l’istruzione, il lavoro e la cultura” (p. 210). E’ a questa politica che Silone ammette di non essere adatto (p. 210).

Forse è da considerarlo un “politico mediocre” se, candidatosi alle elezioni politiche del 1953, non venne eletto? Ma come c’era arrivato, cosa era successo perché tornasse alla politica attiva dopo che nel 1948, “disilluso con lo stato della politica italiana”, aveva declinato la candidatura (p. 196) ?

Ecco di seguito un esempio del Silone combattente che non aveva scheletri negli armadi.

Dopo la pubblicazione a Londra alla fine del 1949, nel volume collettivo “The God that Failed”, del suo essay “Uscita di sicurezza”, apparvero su L’Unità e su Rinascita, rispettivamente a gennaio e a maggio del 1950 due attacchi di Togliatti contro Silone “il rinnegato” e contro “i sei che hanno fallito”.

Silone si dedica immediatamente al romanzo “Una manciata di more” che esce nell’estate 1952. Il soggetto parla da solo. Attraverso il personaggio principale, Silone illustra le motivazioni per cui era uscito dal partito comunista. Nel libro, un vero e proprio atto di accusa all’apparato comunista, Togliatti è ritratto nel burocrate di partito denominato “Il mulo bendato”. Gli attacchi a Silone e alla sua opera da parte comunista sono immediati e virulenti, da Salinari su L’Unità a luglio e agosto 1952 fino a Togliatti stesso su Rinascita nel gennaio 1953 (Silone era anche reduce dall’aver preso pubblicamente le difese di Slansky in occasione dei processi staliniani a Praga).

Per tutta risposta, tre mesi dopo, nel maggio 1953, Silone torna alla politica attiva e si candida, in Abruzzo, alle elezioni politiche nel partito socialdemocratico contro il candidato del Partito Comunista. Ma nulla può contro un’organizzazione capillare del partito che nel suo paese natale, dove la maggior parte degli abitanti conservava in camera da letto l’immagine incorniciata di Stalin deceduto nel mese di marzo, gli fa intorno terra bruciata e il 7 giugno 1953 non viene eletto.

6. Discordanze

L’importanza del contributo biografico di Pugliese non può, infine, essere in alcun modo intaccata da alcuni malintesi che, comunque, corre l’obbligo di segnalare.

Se verso la fine del libro, ritorna il Silone “ossessionato per quasi tutta la vita da pensieri di suicidio e morte…tormentato dalla tristezza e dalla malinconia…” (p. 272), anche il giovane Silone non scherzava. Sarebbe stato un “bambino enigmatico” (p. 35). Non si conosce l’origine di tale affermazione.

Il padre sarebbe morto di tubercolosi ed anche Silone ne soffriva (p. 272 e 281). Per quanto riguarda il padre, un uomo assai robusto come tutti i fratelli, dopo un violento acquazzone si mise a letto con la febbre e in pochissimi giorni morì: non c’erano ancora gli antibiotici. Silone ha sofferto fino alla fine di una forma acuta di asma bronchiale. In Svizzera, negli anni Trenta, veniva curato per ricadute di bronco-polmonite (vedere anche la corrispondenza con Gabriella e con Tasca). “L’attestation médicale” della clinica svizzera dove Silone è morto, registra, quanto segue: “En résumé, Monsieur I. Silone présente actuellement…insuffisance rénale avec angiosclérose…qui trouve…son origine dans la toxi-infection trés ancienne des foyer bronchectasiques (dilatazione patologica dei bronchi) et dans une retention vésicale…hypertrophie prostatique benigne”.

Silone “non riuscì a primeggiare negli studi e persino ad integrarsi socialmente” (p. 50). E’ bene ricordare l’eccezionale rendimento scolastico del giovane Silone nel seminario di Pescina e poi in tutti gli istituti religiosi in giro per l’Italia, compreso quello di San Remo. Forse ci si riferisce al fatto che, come il fratello, non accettò di indossare la divisa scolastica che consisteva nell’abito talare, né abbia accettato passivamente di farsi insolentire insieme ai compagni “marsicani” dagli studenti romani che non erano né orfani né senza mezzi come loro. Basterebbe leggere le lettere del giovanissimo Silone a don Orione dall’aprile 1916 al giugno 1917 riportate nel già citato libro di Casoli. Il ragazzo Silone amava moltissimo studiare. Dopo il terremoto, mentre il fratello ferito veniva portato a Roma, a febbraio ripredeva gli studi a Chieti ma a maggio l’istituto veniva requisito a causa dello scoppio della guerra. Implorò persino il fratello affinchè lo aiutasse da Roma. A giugno è a Roma in un collegio retto da preti. Dopo aver sperimentato l’educazione ipocrita degli istituti religiosi, mentre gli giungevano notizie di rivolte contadine in tutta la Marsica, lascerà il collegio di Reggio Calabria nel giugno 1917 per tornare a Pescina.

Quanto alla cultura di Silone e la sua “scarsa formazione letteraria” se paragonata a quella di Darina Silone, lui poteva vantare la cultura del ginnasio-liceo italiano che era ben diversa e di gran lunga superiore a quella delle equivalenti scuole superiori dei paesi di cultura anglosassone, comprendendo tra l’altro lo studio del latino e del greco antico incluse le letterature, della filosofia, della matematica, della fisica, della storia, della geografia ed altre materia, tutte ad elevato livello. Inoltre quando aveva incontrato Darina Laracy alla fine del ’41, a parte le conoscenze personali e frequentazioni assidue nell’ambiente intellettuale internazionale, Silone aveva già avuto modo di colmare eventuali lacune nella letteratura europea (p. 161).

Relativamente alla conformazione fisica di Silone la biografia lo segnala “più basso” di Darina Silone (p.162). Come si evince da tutte le foto che lo ritraggono, Silone era alto intorno al mt.1,80 e non era affatto più basso di Darina Silone (ved. due foto, a e b, che li ritraggono affiancati). La scheda segnaletica della Prefettura di L’Aquila, nello schedario del Ministero dell’Interno 1925-1938, riprodotta nel sito, segnala, tra i connotati, “statura alta”. Ci sono anche altre testimonianze (ad esempio Franca Magnani, pag. 90 in “Una famiglia italiana”, come riportato anche nella biografia, p. 110). Del resto a Pescina le persone di bassa statura sono in genere i discendenti dei pescatori siciliani venuti sul lago Fucino al seguito dei Mazzarino. La famiglia Tranquilli, di probabile ceppo normanno, è sempre stata caratterizzata, e lo è tuttora nei nipoti e pronipoti di Silone, dalla maggiore altezza rispetto alla media degli italiani.

“Esiliato in Svizzera nel 1930” (pag. 27): Dopo che, nell’estate del 1927, Togliatti aveva ordinato ai funzionari di partito di lasciare l’Italia, Silone è attivo per il partito soprattutto in Francia e compie diversi viaggi anche tra Parigi e Berlino prima di fermarsi in Svizzera durante il 1929.

Torlonia “l’aristocratico locale” (pag. 32): Torlonia era un banchiere romano di origine francese che, su concessione borbonica del 1853, aveva prosciugato il lago Fucino nella seconda metà dell’800 con un’impresa idraulico agricola avvalendosi di ingegneri idraulici francesi. Re Vittorio Emanuele II gli conferì il titolo di “Principe del Fucino” nel 1875.

“morti misteriose di diversi capi di bestiame” (pag. 32): il prosciugamento del lago aveva causato l’abbassamento del clima di qualche grado. Oltre a distruggere gli olivi che crescevano anche a quell’altezza per la mitezza del clima lacustre, aveva ridotto la disponibilità di acqua provocando una notevole riduzione dei pascoli.

“Silone visse nella più povera…parte del paese”(pag. 43): qui andrà a vivere due anni dopo il terremoto, cioè dopo aver abbandonato gli studi nel giugno del 1917, prima di trasferirsi a Roma, come indicato anche nel libro a pag. 48.

“Aline Valangin…di undici anni più giovane di Silone” (pag. 106): Aline aveva undici anni più di Silone (essendo nata il 9 febbraio 1889).

“Adempiere agli obblighi di legge sulla censura della stampa” (pag. 305). Negli anni cui si riferisce non c’era ancora il regime fascista con la censura preventiva per i giornali.

7. Inconoscibilità !

Infine la biografia arriva all’analisi delle accuse, iniziate nel 1996, su Silone spia fascista infiltratosi nel Partito Comunista. Per quanto riguarda i documenti che proverebbero la colpevolezza di Silone, è del tutto evidente che non si tratta soltanto di provarne l’autenticità, bensì la loro attribuzione a Silone.

Secondo Pugliese “almeno alcuni mostrano sicuramente la calligrafia di Silone” (p. 298). Anche la vedova aveva “ammesso …che alcune lettere possono benissimo essere sue” (p. 309).

Invece, come dimostrato dallo storico Giuseppe Tamburrano, esiste una sola lettera attribuibile a Silone, quella del 13 aprile 1930, indirizzata presumibilmente al Commissario Bellone. Le altre sono o anonime o da diversi firmatari e quasi tutte dattiloscritte. Anche riguardo alle “quaranta pagine di documenti” che a pag. 307 della biografia gli vengono attribuite (“appaiono sicuramente di mano di Silone”), sarebbe bene ricordare che Giuseppe Tamburrano le ha sottoposte all’esame di un perito grafologo, la Dott.ssa Anna Petrecchia, che il 19 gennaio 2001 ne ha escluso l’attribuzione a Silone. Nella campagna di stampa su Silone-spia, il 14 aprile 2003 Mauro Canali rese pubblica “la” prova dell’attribuzione a Silone di queste quaranta pagine. Consisteva nel riconoscimento della calligrafia di Silone da parte di un pronipote!

Ci sono poi i fatti della vita di Silone perfettamente ricordati da Pugliese in molte parti della biografia che collidono con le accuse a Silone di aver spiato per i fascisti. Alcuni esempi: “Orione ebbe la corretta impressione che gli agenti fossero ‘autorizzati a sparare a vista’…” (p. 53); “Silone … ricercato dalla polizia fascista” (p. 57) e così via. Il libro ci informa anche di tutte le vicissitudini di Silone comunista clandestino (da p. 77); di come i fascisti cercassero in Italia il suo indirizzo all’estero (p. 87); del fatto che il verdetto del tribunale fascista “suonava più come una condanna di Silone che di Romolo” (p. 88); poi delle spie fasciste che dalla Svizzera inviavano rapporti su Silone persino con il progetto di assassinarlo; di come durante la guerra “Silone continuò a combattere il fascismo” ed altro ancora.

Ma alla fine e nonostante tutto ciò, “l’inestinguibile senso di colpa per il rapporto con Bellone” è ancora lì fino all’ultima pagina della biografia.

Quanto alle motivazioni del tradimento, tralasciando le accuse già rivolte a Silone circa una presunta schizofrenia e amoralità, Pugliese sembra propendere per una più generale ambiguità caratteriale e oscurità indecifrabile di Silone.

“Molti aspetti di Silone restano un mistero anche per me” gli aveva confessato la vedova (pag. 340). Allora, se “lei, che conosceva Silone meglio di chiunque altro, non riuscì mai a comprendere pienamente il mistero della sua identità” (pag. 177), poiché c’erano “aspetti della sua personalità che rimasero sempre un mistero per lei…” (p. 293), nessun altro può riuscire a svelare il mistero Silone.

Se lui era un mistero vivente e la verità su di lui inconoscibile, decisamente insondabile resta il caso del tradimento.

Secondo Darina Silone “c’era sicuramente qualcosa, ma che cosa?…”. Ma sfortunatamente “la verità non sarà mai conosciuta, poiché tutte le persone interessate sono morte” (p. 320). Dieci pagine dopo Pugliese conferma: “non potremo mai veramente risolvere il mistero se e perché Silone abbia trascorso una decade (o solo due anni) scrivendo a Bellone”.

In altre parole, con epistemologia quasi sofistica – l’inconoscibilità di Gorgia – è impossibile sapere come si sono svolti i rapporti di Silone con la polizia fascista e se davvero essi si siano limitati ad un biennio ed ai tentativi di aiutare il fratello.

8. Silone non è mai stato una spia fascista

Eppure i fatti in Italia erano noti e resi di dominio pubblico sin dal 1979. Nel libro commemorativo pubblicato l’anno dopo la sua morte, “Silone tra l’Abruzzo e il Mondo”, a pag. 354 era riprodotto – senza che avesse provocato scandalo alcuno – il documento originale fascista del 16 gennaio 1935 che citava il tentativo di Silone di fingersi informatore per salvare il fratello dalla pena di morte nel carcere fascista dove era stato rinchiuso nel 1928.

Romolo era stato arrestato dalla polizia mentre si trovava ad una decina di chilometri dalla Svizzera nel tentativo di attraversare illegalmente il confine per raggiungere Silone. Era il 13 aprile, il giorno dopo l’attentato al Re a Milano.

Silone sapeva benissimo che l’accusa di tentato regicidio e strage che pendeva su Romolo, benché innocente, portava diritto alla condanna a morte. Silone sapeva anche delle ripetute torture alle quali il fratello sarebbe stato sottoposto in prigione.

Due mesi prima dell’arresto di Romolo, il 6 febbraio, il comunista Gastone Sozzi, un giovane giornalista apprezzato anche da Gramsci, era morto sotto le sevizie nel carcere fascista di Perugia. Silone si era trasferito subito a Parigi per occuparsi del “caso Sozzi” per conto del Partito Comunista e lanciare una campagna internazionale sul trattamento dei prigionieri politici nelle carceri fasciste e le torture cui erano sottoposti. Solo sette giorni prima dell’arresto di Romolo, il 6 aprile, Silone aveva partecipato al comizio antifascista tenutosi a Parigi per commemorare il giovane comunista torturato a morte.

Silone doveva quindi tentare il tutto per tutto pur di salvarlo, sia perché si sentiva responsabile per avergli chiesto di raggiungerlo in Svizzera, ma soprattutto perché spinto da una motivazione più intima e profonda.

Come noto, a quattordici anni Silone aveva aiutato a scavare con le mani un buco tra le macerie del terremoto abruzzese nel gelido gennaio 1915. Dopo cinque giorni era stato ritrovato il corpo della madre. Quando ormai tutti davano per morto anche il fratellino di nove anni, Silone lo aveva visto venire alla luce da sotto i detriti, bianco di calcina, una spalla rotta, la bocca piena di polvere a forza di urlare. Vivo. Per Silone fu come assistere alla sua nascita. Il fratello era l’unico membro della famiglia, l’unico affetto che gli restava.

Tredici anni dopo, Romolo, caduto nel baratro delle prigioni fasciste, era da considerare già morto come quando si trovava ancora sotto le macerie del terremoto.

Silone fa l’unica cosa che poteva fare e che nel suo lavoro alla guida della struttura competente sugli incarichi clandestini aveva visto fare: barattare la vita del fratello con qualche informazione innocua che poteva ingannare i fascisti.

Quando decise di fingersi un confidente non aveva tenuto all’oscuro il Partito Comunista (se non addirittura concordato con esso). Il partito non era contrario a che si cercasse di aiutare i prigionieri politici nelle carceri fasciste, purchè non si danneggiasse il partito stesso. Del resto il fascicolo di polizia su Silone, conservato da sempre negli archivi nella sua interezza, aveva sempre contenuto i ritagli di giornale già noti e le informazioni decotte che Silone aveva fatto passare ai fascisti per notizie importanti e riservate.

Ma Silone non riuscì a portare avanti a lungo una evidente finzione.

Dopo aver inviato documenti inutili, richiesto dai fascisti di fare sul serio, Silone aveva smesso di recitare la parte dell’informatore. La conclusione è che Silone non è mai stato una spia fascista.

Romolo che, al momento dell’arresto, era un bel giovane robusto di ventiquattro anni, dal fisico atletico, amante dello sport – come documentato dagli istituti dove studiava e dalle gare che vinceva, non solo in Abruzzo, in particolare a Sulmona, ed anche sotto le armi – morirà in carcere in seguito alle torture, tra cui i ripetuti colpi al torace e al corpo con sacchetti di sabbia che non lasciavano tracce ma scardinavano l’interno.

9. “Linea d’ombra”

Nelle pagine finali della biografia Pugliese soppesa il grande valore delle opere di Silone contro la “shadow line” costituita dai rapporti con la polizia: “Al senso di colpa che Silone si è portato dietro tutta la vita per il suo rapporto con Bellone si devono alcune tra le più forti e sentite opere di narrativa del ventesimo secolo”(p. 330, già citato).

L’aspetto per così dire machiavellico di Silone – una maschera standard degli italiani visti dall’estero – risulta analogo a quanto il Manzoni faceva dire a don Ferrante dello stesso Machiavelli: “celebre segretario fiorentino, mariolo sì, ma profondo”.

Infine Pugliese contestualizza le denunciate tortuosità siloniane: “…benchè i documenti possono screditare il Silone eroe senza macchia della sinistra, essi aggiungono ombra e profondità ad una figura che era stata considerata un santo laico con suo grande disappunto. Attraverso la sua storia, possiamo giungere ad una migliore comprensione non solo dell’uomo ma anche delle complicate scelte morali richieste dai suoi tempi” (p. 339).

Volendo, a questo punto, sintetizzare il giudizio su Silone espresso da Pugliese, si può, quindi, dire, con formula giudiziaria, che la biografia propende per l’avvenuto accertamento delle colpe morali addebitate a Silone, ma anche per l’applicazione di tutte le circostanze attenuanti connesse al valore letterario e politico delle opere. Silone non deve essere assolto con la formula piena di non aver commesso i fatti spionistici, ma preventivamente perdonato in ragione delle “opere”. Una “perdonanza” alla Celestino V, una remissione dei peccati.

10. La canzone di Ignazio Silone

A questo punto vale la pena rettificare il fraintendimento sul senso del ‘segreto’ attribuito a Silone da Pugliese.

Pugliese scrive infatti che “in età avanzata, Silone fece un’interessante rivelazione durante un’intervista, dicendo che ‘c’è un segreto nella mia vita; è scritto tra le righe dei miei romanzi’” (p. 330).

Invece Silone usa la parola “segreto” in senso metaforico, e non come qualcosa che deve essere tenuto nascosto. Infatti nell’intervista TV di Franco Simongini, a “L’Approdo” nel maggio 1966 (riprodotta a pagina 192 in “Silone tra l’Abruzzo e il Mondo”, 1979), Silone, a proposito della tristezza “di chi partì per andare molto lontano e alla fine si ritrova al luogo di partenza” (con riferimento al romanzo “Una manciata di more”), dichiara che “chi torna da un lungo viaggio non è più la stessa persona, e anche il luogo da cui partì non è più lo stesso”; e che “è difficile spiegare certe cose a quelli che sono rimasti sempre dove sono nati”. Prosegue: “Si racconta di un navigatore spagnolo che in alto mare era solito cantare una bellissima canzone. Ai suoi di famiglia che un giorno, a fine tavola, lo pregavano di ripeterla, egli rispose: ‘E’ impossibile; io canto la mia canzone solo a quelli che vengono con me in alto mare’”. Silone conclude: “Voglio rivelare un segreto, essa [la mia canzone] è tra le righe dei miei libri”. In altri termini: la storia della mia vita e del mio pensiero è interpolata nei miei libri e può essere compresa a pieno, non dagli “ignavi”, ma da tutti coloro che s’imbarcano nella lotta per la democrazia.

Per comprendere il significato profondo della vita e delle opere di Ignazio Silone, basterebbe ascoltare attentamente la canzone, la sua canzone, che costituisce il leitmotiv di tutti i suoi scritti, lo stesso leitmotiv che ha accompagnato la sua intera vita.

Roma, 19 ottobre 2009 Maria Moscardelli