Il periodo più duro della sua vita

Tra il 1928 e il 1930 Silone  attraversa dunque  vicissitudini drammatiche.

Mentre è in profonda crisi verso il Partito al quale aveva dedicato tutto se stesso – al quale aveva sacrificato gli  studi, nel  quale aveva riposto le speranze di una vita e da cui sperava venisse la soluzione ai problemi dei  “cafoni” –   è  in preda a una grande pena ed un’estrema  tensione  a causa dei timori per la sorte del fratello.

Silone fa di tutto per salvarlo dalla condanna capitale.  Rimanda perciò la sua uscita dal Partito,  perché come comunista può fare qualcosa per lui mobilitando anche il Soccorso Rosso internazionale; inoltre, come dirigente comunista è appetibile per il partito fascista, perciò finge di collaborare con la polizia fascista inviando  notizie irrilevanti.

Infatti, subito dopo l’arresto di Romolo, avvenuto il 13 aprile 1928, decide – certamente non ad insaputa del Partito – di proporsi  ai fascisti come confidente. In casi del genere (le accuse dei fascisti a Romolo prevedevano la condanna a morte) il Partito comunista non era  contrario a che si tentasse di aiutare i prigionieri politici,  purchè in definitiva non si danneggiasse il Partito stesso.  Il 23 aprile il capo della polizia fascista, Bocchini, scrive “in via riservata” a Mussolini: “(…) l’Ispettore Generale di P.S. Guido Bellone ha ricevuto da Basilea da Tranquilli Secondino – uno dei capi comunisti – un telegramma che gli preannuncia la sua venuta in Italia.  Il colloquio che ne seguirà potrebbe essere interessante”.  Silone non riuscirà ad entrare in Italia, ma troverà comunque il modo di tentare di aiutare il fratello come testimoniato nella nota  ufficiale del 16 gennaio 1935,  nella quale la Divisione Polizia Politica del regime fascista scrive che Silone  “non fa mistero alcuno del suo profondo odio contro il Fascismo, cui, da comunista qual’è, attribuisce la morte, avvenuta nelle carceri italiane, del fratello Romolo, che egli cercò di giovare quando tentò di prestarsi come nostro informatore”.   In data 12 ottobre 1937, il  Ministero dell’Interno scrive che Silone fornì alla polizia politica “disinteressatamente delle informazioni generiche circa l’attività dei fuorusciti, nell’intento di giovare al fratello, cui dedicò Fontamara a scopo acidamente antifascista.” (Giuseppe Tamburrano, Gianna Granati e Alfonso Isinelli, Processo a Silone, Lacaita Editore, 2001).

Silone, accantonato l’orgoglio smisurato che aveva sempre improntato tutte le sue scelte,  invia però notizie del tutto innocue ed inutili.

Tra il 1929 e il 1930  si riacutizza la malattia ai polmoni e trascorre sempre più tempo nel sanatorio di Davos.  Non sarebbe da meravigliarsi se,  nella clinica dove era ricoverato, avesse fatto una sorta di terapia per alleviare anche i sensi di colpa verso il fratello.  Ma Darina Silone ha più volte detto a me e ad altri  di sapere per certo che Silone non ha mai fatto una terapia psicanalitica in quegli anni in Svizzera, tra l’altro non ne avrebbe avuto i mezzi;   ne scrive alla compagna di quegli anni  Gabriella Seidenfeld, che è a conoscenza del suo  tormento,  solo per tranquillizzarla.

Dalla Svizzera, dove  si trova a vivere da profugo, senza documenti, senza retroterra familiare, senza identità e senza radici, senza mezzi di sostentamento, senza salute,  Silone fa quello che può per far arrivare del denaro al fratello  in prigione perché possa nutrirsi e  vestirsi adeguatamente per combattere  fame e freddo.

 “Nel dicembre del 1930 […] avevo allora trent’anni; ero appena uscito dal partito comunista, al quale avevo sacrificato la mia gioventù, i miei studi e ogni interesse personale;  ero gravemente malato; ero privo di mezzi; ero senza famiglia (rimasto orfano a quindici anni, l’unico fratello che mi restava era allora in carcere, come cattolico antifascista e, poco dopo, in carcere morì);  ero stato espulso dalla Francia e dalla Spagna; non potevo tornare in Italia; in una parola, ero sull’orlo del suicidio.” (Memoriale dal carcere svizzero).

Scheda segnaletica di Secondino Tranquilli
(foto 1929, 1930, 1937)

Quando non è al sanatorio, Silone vive  facendo traduzioni e altri piccoli lavoretti, condividendo con Gabriella difficoltà materiali di ogni genere.  Proprio in questi anni il profondo rapporto sentimentale con la fedele compagna della clandestinità si sta  tramutando in un grande affetto.   Il sentimento che li unisce resterà vivo fino alla fine dei loro giorni, ma Gabriella, che  morirà un anno prima di Silone, non smetterà mai  di amarlo.  Lui ne è stato sempre consapevole:  in Svizzera,  dopo il successo di Fontamara, le aprirà una libreria a Zurigo e,   anche dopo il rientro in Italia,  continuerà ad aiutarla.  Ad un personaggio di un suo romanzo, scritto dopo l’esilio e riconducibile a Gabriella, farà dire, rivolta al protagonista in cui è ravvisabile Silone stesso,   “a me tu puoi lasciarmi, ma io non ti lascerò mai”.

Gabriella è la prima delle tre donne che più hanno contato per Silone, ognuna entrata nella sua vita a distanza di dieci anni l’una dall’altra.