Il fratello Romolo

Negli anni seguenti al suo rientro in Italia, dopo la fine del fascismo, molte delle persone che hanno incontrato Silone, principalmente negli ambienti politici e letterari,  hanno messo in risalto la sua natura taciturna, il che  è dai più ritenuto un grave difetto,  forse perché, per dirla con  Silone,  da quando la nostra antichissima patria esiste è stata sempre governata dalle chiacchiere.  Altri che lo hanno frequentato ricordano che, quando si sentiva fra amici, parlava tranquillamente dei più svariati argomenti.  Con i miei familiari  ricordava i suoi incontri in Svizzera;  parlava dei leader comunisti e socialisti e dei politici dell’epoca, di alcuni personaggi conosciuti in Russia, delle vicende politiche italiane, oltre che della sua vita a Pescina. C’era però un argomento che in famiglia non si menzionava nelle conversazioni con Silone.

Era successo che un giorno   mia madre stava raccontando a  Silone il suo ultimo incontro con il fratello Romolo,  quando questi, prima di lasciare Pescina nel 1927 per non farvi più ritorno, andò a salutare i suoi genitori, la cugina Giulia e il marito.    Lei era presente, aveva quattordici anni e  ricorda ancora Romolo come “un bel giovane alto e forte dai grandi occhi scuri e i capelli folti e neri”.  Quel giorno mia madre avrebbe certamente continuato a parlare della sorte del fratello, se Silone non l’avesse  interrotta dicendo  lentamente:  “Gli ho detto io di lasciare l’Italia.  Volevo che venisse in Svizzera dove avrebbe potuto  finire gli studi.  Se non gli avessi chiesto di raggiungermi, Romoletto non sarebbe morto.  E’ stata solo colpa mia: se non fosse stato per me sarebbe ancora vivo”.   Quello che colpì tutti fu l’espressione sofferente, come fosse preda di un dolore fisico. Parlarne per lui equivaleva ad un tormento che si riapriva.

Non era quindi un mistero per noi che  per Silone la vicenda di Romolo fu una tragedia che portò sempre nel cuore, accresciuta da    un doloroso senso di colpa ed un grande rimorso. Da qui, la necessità, per sopravvivere,  non di rimuovere ma di spersonalizzare i ricordi (cosa che  realizza  nei romanzi).

Il grande affetto di Silone per il fratello minore era stato cementato dalle vicende drammatiche condivise negli anni dell’adolescenza.

La mattina del terremoto del 1915 sotto il cumulo di macerie della casa materna era rimasto tutto quello che restava della sua famiglia, la madre e il fratello più piccolo.    In quel gennaio ghiacciato sulle montagne d’Abruzzo il quattordicenne Silone si era messo a  scavare con le mani.  Quando, dopo cinque giorni,  venne estratto il corpo della madre,  non c’erano più speranze di trovare il fratellino  in vita.  Invece  da un buco del terreno lo vide tirar fuori  vivo, anche se ferito.  Il fratello è tutto quello che gli è rimasto,  è il legame vivente  con la casa, la madre,  la famiglia che non c’è più.

Il collegio in varie parti d’Italia li separerà, ma si terranno sempre in contatto. Silone ne seguirà  gli studi anche da lontano, anzi, per spronarlo a studiare seriamente,  nel 1919 gli scriverà in collegio di aver ripreso lui stesso gli studi a Roma, dove si era trasferito da poco per realizzare la sua grande aspirazione a svolgere attività politica:  nella lettera del 21 febbraio, il giovane Silone, che dimostra, come sempre,  una grande maturità oltre a  sapere bene quello che vuole, scrive al fratello minore:

Caro Romolo […] Sono tanto contento che tu ti trovi bene:  del resto n’ero quasi certo.  In ogni modo ti ricordo che lo star bene dipende da noi. […] ho trovato quello che cercavo e la cui mancanza non mi dava pace. Ho ripreso con lena a studiare regolarmente.[…]”.

Anche quando l’attività politica per il Partito comunista divenne più pressante,  Silone non perse mai  i contatti con il fratello.  Il giovane che,  con un sovversivo in famiglia non aveva potuto finire gli studi e non riusciva a trovare lavoro,  restava perciò sempre più a lungo a Pescina a casa della nonna materna.  Ogni volta che gli era possibile,  Silone, nonostante la vigilanza  della polizia, tornava al paese natale per rivedere lui e la nonna.

Appena riparato in Svizzera,  in un paese libero e moderno,  fra i suoi primi pensieri c’è quello di farsi raggiungere dal  fratello.

Silone era stato per il fratello minore un esempio da seguire fin dagli anni del collegio. Ora che si trova all’estero Silone teme che il fratello si faccia coinvolgere nell’attività clandestina del Partito comunista, in un periodo di crescenti pericoli, senza avere adeguata esperienza.   Il fratello,  idealista e  generoso, dotato di un  fisico robusto,  può  diventare poco prudente e finire col  comportarsi ingenuamente.

Tramite i compagni comunisti rimasti nel nord Italia, gli organizza l’espatrio.  E’ in questi giorni,  proprio mentre cerca di uscire dal paese per raggiungere Silone in Svizzera, che il ventiquattrenne Romolo viene catturato dai fascisti con l’accusa di tentato regicidio e di strage, reati comportanti la condanna a morte.

Silone vive la vicenda del fratello minore come una sconfitta personale.  Dopo averlo visto uscire vivo contro ogni speranza dallo scavo delle  macerie del terremoto, non è stato capace di proteggerlo ed evitargli di  cadere nel baratro  delle prigioni fasciste.  Irresistibile è il senso di colpa perché non ha potuto impedire che ciò accadesse, anzi è accaduto proprio per causa sua, perché  gli aveva chiesto di raggiungerlo all’estero.